I titoli (da film) delle inchieste della Gdf che violano la presunzione di innocenza

Ermes Antonucci

Da "Amici miei" a "Paga Pantalone": la Guardia di Finanza continua ad assegnare alle proprie indagini titoli lesivi della presunzione di innocenza degli indagati, in contrasto con la legge che ha recepito la direttiva europea. Parla Enrico Costa (Azione)

Operazione “Amici miei”, “Paga Pantalone”, “Candidopoli”, “Il vaso di Pandora”, “#Continuoaspacciare”, “Illegal Stay”, “Green scam”, “Bianco sporco”, “Attestati sterili”. Sono solo alcuni titoli delle indagini svolte negli ultimi mesi dalla Guardia di finanza (Gdf) in giro per l’Italia, riguardanti presunti casi di corruzione, truffa, traffico di sostanze stupefacenti, immigrazione clandestina, riciclaggio e molto altro. Operazioni annunciate al pubblico attraverso comunicati stampa della stessa Gdf e chiaramente lesive della presunzione di innocenza dei soggetti coinvolti nelle inchieste, nonostante dal dicembre scorso nel nostro paese sia in vigore una legge che vieta esattamente questa pratica.

 

Il decreto legislativo n. 188/2021, con cui è stata recepita la direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza, oltre a prevedere il “divieto per le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato” fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza definitiva, stabilisce infatti che nei comunicati stampa con cui vengono rilasciate informazioni sulle inchieste “è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”.

 

Nonostante tutto ciò, la Guardia di Finanza continua ad assegnare alle proprie indagini titoli non solo dal taglio cinematografico (per esempio “Ritual”, “Goldfinger”, “White mule”), ma spesso anche palesemente lesivi della presunzione di innocenza degli indagati, poiché non lasciano dubbi sulla sussistenza dei reati contestati (cosa dire di “#Continuoaspacciare”, che sembra persino suggerire l’avvio di una campagna social?).

  

Non è tutto. Secondo la nuova normativa, infatti, la polizia giudiziaria può fornire, tramite comunicati o conferenze stampa, informazioni sulle attività di indagine soltanto in seguito ad autorizzazione del procuratore della Repubblica: “L’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”. Non risulta che ciò sia avvenuto nei casi citati in questo articolo. Insomma, la legge che avrebbe dovuto porre un primo freno al meccanismo della gogna mediatico-giudiziaria sembra essere rimasta lettera morta. E i primi a violarla sembrano essere gli uffici della Guardia di finanza. Non proprio un’immagine confortante per il nostro paese.

 

“Lo avevo detto fin dall’inizio: occorrerà vigilare che le regole siano rispettate. La vostra inchiesta non fa che confermare questa mia convinzione”, dichiara al Foglio Enrico Costa, deputato di Azione, il parlamentare che più di tutti ha lottato per far recepire la direttiva europea. “E’ evidente – aggiunge – che la denominazione delle operazioni mira a fornire al cittadino una precisa lettura delle vicende, il più delle volte negativa nei confronti dei soggetti indagati e lesiva del loro diritto alla presunzione di innocenza”.

 

“Nel codice di procedura penale – prosegue Costa – non esiste alcuna norma che imponga di fornire nomi alle inchieste. E non è vero che questa pratica serve solo a individuare un fascicolo di indagine. Serve ad alimentare il marketing giudiziario, fatto di inchieste con titoli a effetto, conferenze stampa show, pubblicazione di intercettazioni sui giornali. Un marketing molto spesso realizzato dalla polizia giudiziaria, ma tollerato e rafforzato dalle procure, che poi rilasciano comunicati stampa e organizzano conferenze stampa riprendendo le denominazioni fornite dalla pg”. “Ma dove è scritto che bisogna dare un nome all’inchiesta?”, si chiede di nuovo Costa. “Sarebbe come se in un qualsiasi procedimento amministrativo, la pubblica amministrazione decidesse di dare un nome al procedimento dando per scontato che esso avrà esito negativo per il cittadino. Mi chiedo come i ministri competenti su queste forze di polizia (quello dell’Interno, della Difesa, dell’Economia) possano continuare a tollerare questa situazione”.

 

Anche dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, però, ci si attende un richiamo al rispetto della legge da parte della polizia giudiziaria e delle procure. “Nelle prossime settimane chiederò al ministero della Giustizia di poter esaminare a campione gli atti autorizzativi delle procure sui comunicati e sulle conferenze stampa per verificare se siano stati effettivamente applicati i principi dalla normativa riguardo alla sussistenza dell’interesse pubblico”, annuncia Costa.