Il giudice bacchetta Davigo: “Svesta la toga e si cali nella parte dell'imputato”

Ermes Antonucci

Si è aperto a Brescia il processo nei confronti dell’ex magistrato simbolo di Mani pulite, accusato di rivelazione di segreto di ufficio per i verbali di Amara sulla fantomatica loggia Ungheria. Ammessi tutti i testimoni richiesti dalle parti, tra cui i vertici della magistratura italiana

Rischia di assumere le forme del processo del decennio alla magistratura italiana quello apertosi ieri a Brescia nei confronti di Piercamillo Davigo, ex magistrato simbolo di Mani pulite ed ex membro del Csm, accusato di rivelazione di segreto di ufficio nella vicenda che vede al centro i verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. In apertura del processo, infatti, il presidente del collegio giudicante, Roberto Spanò, ha ammesso tutti i testimoni richiesti dalle parti. Una lista di quasi trenta nomi, che include alcuni “pezzi grossi” della magistratura italiana: il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm David Ermini, i consiglieri Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Giuseppe Cascini, Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, e persino i vertici della procura milanese all’epoca dei fatti.

 

 

Davigo si è presentato alla prima udienza più battagliero che mai. Ha rilasciato dichiarazioni spontanee, ribadendo la sua innocenza, e poi con toni molto animati, quasi scambiando l’aula del tribunale con uno studio televisivo, si è spinto a criticare il contenuto dei capi di imputazione contestatigli dalla procura di Brescia, guadagnandosi una tirata d’orecchie da parte del giudice Spanò: “E’ difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato”.  

 

L’elenco dei testimoni potrebbe essere sfoltito con l’avanzare del dibattimento: “Vedremo di volta in volta la rilevanza”, ha spiegato Spanò. Il primo a dover comparire in aula, nella prossima udienza fissata per il 24 maggio, sarà  il sostituto milanese Paolo Storari, sotto processo in rito abbreviato per la medesima vicenda. Nell’aprile 2020 Davigo convinse Storari a consegnargli copia dei verbali degli interrogatori – coperti da segreto – resi da Amara sulla fantomatica loggia Ungheria, per poi rivelarne il contenuto (al di fuori di ogni procedura formale) a svariati componenti del Csm e al senatore Nicola Morra (soprattutto per riferire che nella presunta loggia sarebbero stati coinvolti i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita, suo ex amico, e Marco Mancinetti), nonché al vicepresidente del Csm, David Ermini. I verbali segreti di Amara furono poi recapitati in forma anonima ad alcuni giornalisti e anche al consigliere Nino Di Matteo. A spedirli, secondo la procura di Roma, sarebbe stata la segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ora indagata per l’ipotesi di calunnia.

 

L’ex pm di Mani pulite si è sempre difeso sostenendo di aver agito nel rispetto della legge, anche se non è chiara quale (la legge tutela il rispetto del segreto investigativo). Nel caso in cui questa versione venisse accolta dai giudici, si sarebbe di fronte alla legittimazione di un metodo al di fuori di ogni logica di civiltà del diritto e di funzionamento delle istituzioni. Ogni componente del Csm si sentirebbe infatti legittimato a ricevere atti di indagine coperti da segreto da un qualsiasi pm e a rivelarne il contenuto, al di fuori di qualsiasi procedura formale, a propri colleghi e persino a politici, con l’obiettivo di mettere in cattiva luce altri consiglieri del Csm (non a caso Ardita si è costituito parte civile). Il processo non sarà breve, ma il suo esito sarà decisivo per il futuro della magistratura.