(foto d'archivio Ansa)

Un'altra nomina è possibile. Perché salvare il dap dai magistrati

Ermes Antonucci

Dopo una lunga serie di pm prestati – con scarso successo – alla gestione degli istituti di pena, sembra sia arrivato il momento di cambiare strada

Ma chi lo ha detto che il capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, cioè l’articolazione del ministero della Giustizia che si occupa della gestione dei circa 200 istituti di pena sparsi per il Paese, debba per forza essere un magistrato, per di più con esperienza da pubblico ministero (e magari pure antimafia)? E’ la domanda che circola tra gli addetti ai lavori in seguito all’annuncio delle dimissioni dell’attuale capo del Dap, Bernardo Petralia, con un anno di anticipo sulla data di scadenza del suo incarico. Petralia ha motivato la sua richiesta di pensionamento anticipato con il desiderio di dedicarsi alla famiglia, riaprendo la partita per la nomina a uno dei posti più ambiti della pubblica amministrazione. Un rilievo dovuto non solo all’indubbio prestigio della carica (il capo del Dap è equiparato ai comandanti generali degli altri tre corpi di polizia), ma anche al lauto trattamento economico spettante (uno stipendio di circa 320 mila euro annui, pensionabili a vita e non legati alla durata dell’incarico).

La domanda posta in avvio sorge da una statistica eloquente: “Dei 14 capi che si sono alternati alla guida del Dap, 12 provenivano dalle procure e la maggior parte dalle Direzioni distrettuali antimafia”, sottolinea al Foglio, l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane. Anche Petralia non è sfuggito a questa statistica, avendo svolto per decenni la funzione di pubblico ministero antimafia. Anche Petralia, come i suoi predecessori, non sarà ricordato per un particolare slancio riformatore nella gestione della delicata amministrazione penitenziaria. Del resto, è stato lo stesso Petralia poche settimane fa a dirsi “addolorato e intristito” per la situazione carceraria: “Non posso dire di essere soddisfatto, di aver raggiunto degli obiettivi. E nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visito due istituti a settimana.  E delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”.

Insomma, sono queste parole di “resa”, unite ad altre dichiarazioni rilasciate da Petralia di recente (“A ogni magistrato farebbe bene una settimana in carcere”), a rendere chiaro l’ennesimo fallimento della prassi che vede la gestione dell’amministrazione penitenziaria essere affidata a un pubblico ministero, cioè a un soggetto che nulla o poco sa della realtà carceraria e che lavora principalmente secondo un’ottica repressiva (spesso mafiocentrica) e di tutela della sicurezza. Tutto il contrario di ciò che la gestione di una macchina così complessa come quella penitenziaria richiederebbe: elevata conoscenza specifica del settore penitenziario, attitudini manageriali e organizzative, maggiore apertura alle finalità costituzionali di rieducazione del condannato, persino conoscenze di base di psicologia e sociologia per una migliore definizione di effettivi percorsi di rieducazione dei detenuti.

La legge (n. 395/1990) stabilisce che al vertice del Dap possano essere nominati (dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Giustizia) o magistrati di Cassazione con funzioni direttive superiori o dirigenti generali di pari qualifica, provenienti quindi dall’amministrazione pubblica penitenziaria. Dopo questa lunga serie di pm prestati – con scarso successo – alla gestione degli istituti di pena, sembra sia arrivato il momento di cambiare strada: scegliendo come nuovo capo del Dap ancora un magistrato, ma proveniente dalla giurisdizione di sorveglianza e non dalla pubblica accusa, oppure una figura interna allo stesso dipartimento. “Escluderei la nomina di un magistrato, ancor di più di un pm, come è stato finora”, afferma Polidoro, “perché si tratta di una nomina che mira esclusivamente alla sicurezza delle carceri, mentre la detenzione deve mirare soprattutto alla rieducazione e al recupero dei detenuti”. “Si potrebbe pescare all’interno della stessa amministrazione penitenziaria, dove c’è grande esperienza – aggiunge Polidoro – ma ciò che è cruciale è che a capo del dipartimento si affermi una figura con attitudini manageriali, cioè dotato delle competenze necessarie a gestire un dipartimento che, per la sua dimensione e complessità, è assimilabile a un’azienda”.

“Che competenze può avere un magistrato a dirigere un dipartimento così grande e chiamato a gestire una serie di questioni così delicate (istituti di pena, polizia penitenziaria, percorsi di rieducazione e di reinserimento dei detenuti)?”, si chiede ancora Polidoro. Spetterà alla ministra della Giustizia Marta Cartabia individuare il successore di Petralia e quindi il compito di scegliere se proseguire nella gestione del sistema penitenziario in un’ottica repressiva o inaugurare, finalmente, una strada votata alla prospettiva rieducativa indicata dalla Costituzione.

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