Il pool di Mani pulite: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Pier Camillo Davigo (Foto: Olycom/Elio Zammuto)

La Quinta colonna

Da Mani Pulite alla Trattativa, i processi di piazza hanno lunga tradizione

Giuseppe Sottile

Célestin Guittard guardava la ghigliottina di Luigi XVI. Oggi ovunque ci sia un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente

E’ troppo facile e forse anche un po’ maramaldesco prendersela oggi con Sigfrido Ranucci, padre padrone di “Report”, e accollare a lui tutti i vizi, le storture e le nefandezze del cosiddetto giornalismo d’inchiesta. E’ sin troppo comodo contestare a lui e solo a lui il rapporto malsano con i magistrati più politicizzati, con i servizi segreti più deviati, con le fonti d’informazione più opache e più spericolate.

Nel grande circo mediatico giudiziario ci sono dieci, cento, mille Ranucci e ciascuno recita la sua parte a perfezione. Senza sbavature, senza errori, senza passi falsi. Hanno la dritta – si chiama così la soffiata dell’amico poliziotto o dell’amico procuratore – e partono subito all’assalto dell’uomo da sputtanare, della vittima da impiccare all’albero della gogna, dell’indagato da cucinare al fuoco lento, del politico da mettere fuori gioco, dell’imprenditore da condannare comunque al fallimento. Lo chiamano scoop. Lo ammantano quasi sempre con quel principio sacro e inviolabile che è la libertà di stampa.

Sono i giornalisti coraggiosi. Trent’anni fa, al tempo di Mani Pulite, camminavano in gruppo. Si erano addirittura costituiti in pool – come le tre punte schierate in attacco dalla procura di Milano: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo – e avvertivano lo stesso zelo rivoluzionario, salvifico, purificatore che si respirava nelle stanze del Palazzo di Giustizia. Loro, i magistrati, arrestavano corrotti e corruttori, manager e tangentisti, boiardi di stato e assessori di provincia, democristiani e socialisti. Davano la caccia a Bettino Craxi, detto il Cinghialone, tenevano sotto scacco Arnaldo Forlani e Romano Prodi, martellavano sui vertici dell’Eni e su quelli delle Ferrovie, strizzavano le palle a un mariuolo che prendeva mazzette al Pio Albergo Trivulzio e anche a un capitano d’industria conosciuto e stimato in tutto il mondo come Raul Gardini. Loro, i magistrati, non si lasciavano intimorire da nessuno e non si lasciavano impietosire nemmeno da chi si ammazzava in carcere per la disperazione. Erano implacabili e intoccabili. Erano i Reverendissimi Inquisitori. Ai loro piedi – hic genuflectur – c’erano i cronisti del pool che, come chierici vaganti, predicavano urbi et orbi la necessità di radere al suolo ogni male, ogni colpa, ogni peccato, ogni compromissione. Non cercavano una Bastiglia da abbattere, ma un San Vittore da riempire. E ogni giorno informavano lettori e telespettatori sulla contabilità della rivoluzione.

Somigliavano tanto, scusate l’accostamento, a Célestin Guittard, il proprietario terriero di Parigi che, negli anni della ghigliottina, annotava su un diario – lo ha scoperto e pubblicato, nel 1973, lo storico Roger Aubert, si intitola Journal d’un bourgeois de Paris sous la Révolution – il numero di teste mozzate. Era originario d’Evergnicourt, un villaggio della Champagne, ma abitava a Saint-Sulpice a due passi dal palchetto infame dove il cittadino Robespierre apparecchiava ogni giorno il grand guignol delle condanne a morte. Célestine segnava ogni dettaglio. La mattina del 21 gennaio 1793, alle dieci e venti, assiste alla decapitazione di Luigi XVI, re di Francia e puntualmente scrive che faceva freddo, che il termometro segnava tre gradi. Non batte ciglia, non emette un minimo segno di orrore. E il giorno dopo, come al solito, invita a pranzo una sua amica, Madame Sellier, perché Guittard con tutti i guai che il paese attraversa ha sempre di che mangiare o dar da mangiare ai propri ospiti. Nel marzo 1794 assiste all’esecuzione di Hébert e di altri 19 cospiratori e saluta, con una pennellata di luce, la nuova primavera: “Il faisait le plus beau temps du monde, et chaud”.

Altri tempi, va da sé. Ma la domanda resta terribilmente attuale: senza i giornalisti che facevano da coro a quell’immane lotta tra il bene e il male, i magistrati di Mani Pulite avrebbero avuto tutto il potere che hanno avuto? Si affacciavano alla tv e bloccavano i decreti del governo sulla carcerazione preventiva; camminavano per strada e venivano applauditi, incoraggiati, osannati. Nell’aula di Montecitorio venivano fiancheggiati da deputati che esibivano il cappio, che inneggiavano alla forca, che sventolavano le manette. A Roma, davanti all’hotel Raphael, il già presidente del Consiglio – Bettino Craxi, sempre lui – viene insultato nella maniera più sordida: con il lancio delle monetine. Allons enfant.

E quando all’ancien regime, decapitato dalle inchieste, succede Silvio Berlusconi – era venerdì 21 novembre 1994, vigilia del vertice Onu di Napoli – ecco che una “manina manona” della Procura confida sottobanco a un cronista del Corriere della Sera che il Cavaliere è stato colpito, manco a dirlo, da un avviso di garanzia per concorso in corruzione. Una data da segnare. Rivela che da quel momento la magistratura sa come amministrare, per fini politici, i tempi di una notizia: nasce la “giustizia a orologeria”. E rivela anche che tra gli inquisitori e i chierici, in forza della lunga frequentazione, si è stabilita una complicità, un pactum sceleris che non ammette tradimenti. Da un lato c’è il magistrato che viola il segreto istruttorio e organizza all’un tempo l’aggressione politica; dall’altro lato c’è un giornalista che promette di non rivelare mai la fonte e che già pregusta l’avvento di altre indiscrezioni, di altre carte cedute di contrabbando, di altri dossier consegnati in barba a tutte le leggi. A chi apparteneva la “manina manona” della fatale confidenza? Dopo trent’anni il mistero resiste ancora.

Mani Pulite, comunque, non c’è più. Antonio Di Pietro, l’attore più popolare e ombroso di quella stagione giudiziaria, ha tentato la strada della politica ma alla fine, inseguito da incresciosi interrogativi sulle sue attività e sulle sue relazioni, ha preferito ritirarsi nelle campagne di Montenero di Bisaccia e lasciare ai posteri l’immagine di un Cincinnato inseguito da mille dicerie: dirà che lo perseguitavano le dicerie degli untori. Piercamillo Davigo ha scalato invece tutti i gradi e i trofei della giurisdizione, ha predicato a tutte le ore la buona novella del giustizialista che vede solo colpevoli e mai un innocente, ed è finito come per contrappasso in una palude maleodorante dove affiorano faide e rancori tra toghe che fino a un giorno prima sembravano campioni di rigore e santità. Con lui, nelle inchieste di Brescia, sono finiti anche nomi altisonanti della procura milanese, a cominciare da quel Fabio De Pasquale, l’aggiunto di Francesco Greco, che per oltre dieci anni ha dato la caccia all’Eni e ha perso in malo modo la sua personale partita con la giustizia. Le indagini sono ancora alla fase preliminare. Chi vivrà, vedrà.

E’ rimasto intatto invece il sistema inaugurato il 21 novembre del 1994 dal giornalista del Corriere – unico e solo, non più in pool – che ricevette da una manina della procura milanese la soffiata dell’avviso di garanzia a Berlusconi. Gli eredi non si contano. Spaziano da Palermo a Firenze, da Catanzaro a Reggio Calabria, da Napoli a Trani. Si sono attaccati soprattutto alle costole dei “magistrati coraggiosi”, di quelli che vogliono riscrivere la storia d’Italia e che per compiere questa ardita impresa hanno bisogno di essere eroi e di avere le mani libere su tutto, anche sui codici.

Fateci caso: ovunque c’è un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente, che dilata ogni suo respiro, che avalla le sue ambizioni, che consacra i suoi teoremi, che sa come sfogliare e leggere le intercettazioni, che sa come condurre il gioco perverso di mascariare i nemici e mettere in difficoltà un partito, un governo, un sindaco o un presidente. E’ il giornalista con le stellette, praticamente un soldato. Ma per darsi un tono si definisce giornalista d’inchiesta e come tale si guadagna anche lui uno strapuntino nel piazzale degli eroi: se gli va bene gli assegnano pure la scorta.

Un magistrato teoricamente – molto teoricamente – può anche pagare pegno dopo uno scivolone. Va bene che cane non mangia cane; però può sempre capitargli un inciampo o un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura. Mentre al giornalista d’assalto – o dalla schiena dritta, decidete voi – difficilmente succede qualcosa. Partiamo dai fatti: fu mai richiamato alla decenza l’autore dello scoop che qualche anno fa portò alle dimissioni di una ministra, definita in uno scazzo con il fidanzato “sguattera guatemalteca”, ministra puntualmente archiviata? Il giornalista coraggioso, ma soprattutto premuroso nei confronti del magistrato che gli ha rifilato l’indiscrezione, avrà certamente sostenuto, con gli amici e con i colleghi, di avere esercitato il diritto di cronaca; quel diritto che garantisce anche la possibilità di entrare a gamba tesa nella vita privata degli altri, di devastarla di sfregiarla, di distruggere storie e reputazioni, di polverizzare carriere e patrimoni. E’ la stampa, bellezza!

Ma per scoprire come il connubio tra malagiustizia e giornalisti diventa a tratti persino velenoso bisogna entrare nel rito palermitano. Qui la lotta tra mafia e antimafia non ha mai conosciuto tregua. Qui ci sono stati i veri eroi, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, trucidati da attentati che hanno segnato punte altissime di morti, di sangue e di terrore. Ma sull’onda lunga della doverosa e strenua guerra ai boss e ai picciotti, ai complici e ai fiancheggiatori, si sono istruiti anche molti processi finalizzati – quasi tutti in buonafede, ci mancherebbe altro – a colpire chi aveva garantito alla cupola di Cosa Nostra coperture politiche, oltre che istituzionali. Si cominciò, già nel 1993, subito dopo l’arrivo di Gian Carlo Caselli alla procura di Palermo, con il processo a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio dei Ministri e leader nazionale di una corrente democristiana che in Sicilia aveva come massimo esponente Salvo Lima, morto ammazzato nel marzo del ‘92, e i terribili cugini Nino e Ignazio Salvo, esattori mafiosi di Salemi. Un processo non facile, per carità. Ma Andreotti finì assolto: non c’erano prove sufficienti. I giornalisti più vicini alla procura si impegnarono fino allo spasimo. Tirarono fuori persino il bacio tra il callido statista e il sanguinario Riina, detto “Totò u’ curtu”, boss latitante dei sanguinari corleonesi. Ma non ci fu niente da fare.
Poi si montò un processo per mafia anche contro Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, definito dal circolo delle anime belle un “ammazzasentenze” perché aveva annullato condanne che lui, giureconsulto di scuola eccellente, aveva ritenuto ingiuste e approssimative. Apriti cielo. Si mobilitarono plotoni di pentiti che parlarono di borse piene di soldi in viaggio da Palermo fino al palazzaccio romano di piazza Cavour. L’anziano giudice fu intercettato, offeso, oltraggiato, umiliato. “Prima lo chiacchierano selvaggiamente e poi dicono che è un giudice chiacchierato”: fu questo il commento di Leonardo Sciascia, scrittore di verità. Ma, nonostante lo schieramento militare di giornali e professionisti della diffamazione, anche Carnevale fu assolto: non c’erano prove.

Il salto nel cielo delle cose mai viste avviene però nell’immediata vigilia delle elezioni del 2013. Antonio Ingroia, un procuratore aggiunto di Palermo che coltiva l’ambizione di una carriera politica, riesuma brandelli di inchieste più volte archiviate e imbastisce una mastodontica trama su una improbabile trattativa tra i vertici dello Stato – a cominciare dai generali dei carabinieri che nel gennaio del ‘93 avevano catturato Riina – e i padrini di Cosa Nostra. Una boiata pazzesca, affidata quasi esclusivamente alle patacche di Massimo Ciancimino, figlio di quel Vito Ciancimino che negli anni del sacco edilizio fu sindaco di Palermo e uomo dei corleonesi nel gioco sporco della politica. Massimuccio – divenuto per esigenze di copione “icona dell’antimafia” e incoronato come tale da un bacio pubblico di Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato in via D’Amelio –  diventa il ventriloquo del padre e ha quindi il diritto di inventarsi tutte le sceneggiature necessarie per trasformare l’inchiesta in un romanzo criminale. Un romanzo che Ingroia, vicino alla discesa in campo come candidato alla poltrona più alta di Palazzo Chigi, affida per intero nelle mani di una fidatissima confraternita di giornalisti e dei loro tambureggianti talk-show. E’ il trionfo – pubblico e assordante – del circo mediatico giudiziario. E’ il punto di arrivo di un processo che non si celebra più in un’aula del tribunale ma direttamente e ufficialmente in piazza perché il magistrato che lo ha istruito preferisce le luci della ribalta ai ritmi lenti e un po’ noiosi della Corte d’Assise. Massimo Ciancimino non è più un testimone a disposizione di accusa e difesa, ma un attrezzo di scena nel palcoscenico della finzione e di una politica fatta di cenere e fango, per dirla con Giobbe.

Povero Célestine Guittard. Nel dicembre del 1795 la rivoluzione, che aveva creato e spezzato tanti idoli, non lo incanta più. Troppa violenza, troppa oratoria inutile e beffarda, troppi disastri. “Tous les beaux discours ne flattent plus l’oreille”, scrive. E chiude il diario.