La pm Maria Cristina Rota della Procura di Bergamo, che indaga sulla mancata istituzione della zona rossa in Valseriana (foto LaPresse)

La storia non la fanno i pm. Ma una domanda resta: perché i tamponi vennero limitati?

Natale D'Amico, Franco Debenedetti

L’esempio del Veneto e una traccia per il futuro. Sarebbe stato possibile produrre “più dati” e sottrarre un po’ di spazio all’incertezza? E’ tempo della politica, non delle procure

A Nembro e nella Valseriana bisognava chiudere tutto? Farlo spettava al governo o alla regione Lombardia? Questione delicatissima: in quanto conflitto di attribuzioni tra poteri dello stato, quasi da Corte costituzionale; in quanto prefigura la possibilità di una responsabilità del premier, rasenta le competenze del tribunale dei ministri; ma soprattutto, come scrive Claudio Cerasa sabato, “dice molto su una grande anomalia del paese, l’incapacità da parte dell’opinione pubblica di difendere con gli artigli il principio della separazione dei poteri”.

 

La cosa più sconcertante è che tutto questo è per nulla: nel senso che la domanda è mal posta. Prima ancora di decidere se è stato commesso un reato di natura omissiva – non chiudere – e chi lo avrebbe commesso, bisogna porsi una domanda preliminare: governo e regione disponevano dei dati necessari per assumere una decisione fondata? Anzi, poiché era a loro che toccava farlo, quali disposizioni hanno dato su modalità ed entità dei dati da raccogliere? Molte cose indicano la mancanza di dati, anche in tempi posteriori a quelli per cui i magistrati si sono spostati a Roma. Il numero dei morti “in eccesso”, solo dopo numerosi aggiustamenti accertato in modo non equivoco e comunicato in tempi non indecenti. L’incertezza sui numeri dei contagi, che vanno sovente corretti in funzione dei tamponi fatti o comunicati in ritardo. Una ricerca sui morti da Covid-19 nelle Rsa, su LaVoce.info di questa settimana, che mette a confronto i dati di 20 paesi, e dove manca l’Italia perché, scrivono, non esistono dati ufficiali, e per “l’assenza di politiche di screening a tappeto”. I pm che indagano sull’ospedale di Alzano, scrive il Corriere della Sera di domenica, hanno acquisito che furono circolari ministeriali a impedire di sottoporre a tampone i pazienti, in quanto non rientravano nei ristretti limiti previsti, trovando cioè il rapporto diretto tra “fatti di Lombardia” e dati, cioè tamponi. E infine un indizio: tutti ricordiamo che all’inizio dell’epidemia, quando in Italia sembrava ci fossero più casi che in Francia, ci fu chi spiegò che era dovuto al maggior numero di tamponi fatti da noi, e che, se non li riducevamo, avremmo compromesso la stagione balneare.

 

Già a marzo in molti proponemmo – e ben più autorevolmente di noi due ex presidenti dell’Istat indicarono come farlo – di sottoporre a test un campione rappresentativo della popolazione, nazionale o lombarda. Ogni giorno tutti noi commentiamo sondaggi elettorali basati su un numero di risposte che raramente supera il migliaio: quando quei sondaggi ci dicono che un partito è al 10 per cento, non sappiamo se il numero giusto è 8 o 12, però sappiamo che non è 0,1, né 1 e neanche 50. Allo stesso modo sarebbe stato sufficiente sottoporre a test campioni casuali di un migliaio di persone, per sapere se ciascuno di noi, quando entrava in contatto con una persona, correva un rischio di contagio dello 0,1, dell’1, o del 10 per cento (o magari ancora superiore). Quella informazione mancava a noi, e mancava a chi era chiamato ad assumere decisioni. E questo rimanda a un altro perché: perché fu scelto di limitare il numero dei tamponi? Domanda ancor più rilevante quando ormai sappiamo che c’è stato il Veneto che ha fatto di testa sua e di tamponi ne ha fatti molti di più, ottenendo risultati molto buoni nella gestione dell’epidemia: proprio per quel motivo, si direbbe. Chi ha dato l’ordine di razionare i tamponi? Chi ne ha limitato l’uso solo a certe categorie? Se è stato per mancanza di reagenti e di strumentazione per la loro analisi, si sono mobilitate tutte le strutture per sopperirvi? Da quando? Questo è ciò su cui è necessario indagare, il fatto primo su cui è necessario fare luce: magari anche per sapere se a limitare è stato il governo o sono state le regioni.

 

La risposta a queste domande, piaccia o meno, non può venire dal giudice penale. La natura del fatto di cui si discute lo spingerebbe a indagare su reati di natura omissiva e non dolosa. Sarebbe poi chiamato a valutare lo stretto nesso di causalità fra l’atto colposamente omesso e la diffusione dell’epidemia. In mancanza di un controfattuale, non potrebbe mai giungere a una “verità processuale” sufficientemente robusta.

 

In tempi di keynesismo imperante, è invece necessario riconoscere che molte decisioni furono assunte in quelle condizioni di incertezza alle quali Keynes dedicò il suo “Trattato sulla probabilità”, le condizioni nelle quali la probabilità non può far affidamento sulla frequenza. In tempi di sovranismi dilaganti, se si preferisce, si può pensare al concetto di probabilità soggettiva di Bruno De Finetti. Ebbene, sarebbe stato possibile produrre “più dati” e sottrarre un po’ di spazio all’incertezza. Sul perché non lo si fece è comunque necessario fare chiarezza, con strumenti diversi di quelli volti alla ricerca dei responsabili di un reato. Difficile sottoporre le probabilità soggettive al giudizio di una corte penale.