La giustizia penale al tempo del Covid-19

Catello Vitiello*

Fare il “processo da remoto” significa pregiudicare i diritti e le garanzie. È arrivato il momento di un vero reset giudiziario

La paralisi dei processi penali determinata dall’emergenza Covid-19 che si prospetta abbastanza lunga assesterà il colpo definitivo a un sistema che, già da anni, è in grande affanno. Se si dovesse cedere – dal punto di vista legislativo (come, ahimè, sta accadendo) o dal punto di vista dell’amministrazione giudiziaria (cui è demandata la scelta finale di celebrare o meno un processo da remoto) – alle suadenti sirene della smaterializzazione processuale, i diritti e le garanzie, come l’oralità e l’immediatezza, sarebbero definitivamente pregiudicati: fare il “processo da remoto” (che nulla ha a che vedere con la videoconferenza per alcune categorie di imputati) significa rinunciare alla possibilità:

- per l’imputato di confrontarsi con il suo accusatore (art. 111, comma 3, Cost.);

- per l’avvocato difensore di esercitare tutti gli strumenti che il codice gli consente per la verifica della resistenza probatoria degli elementi a carico (art. 24 Cost.);

- per il pubblico ministero (che – va ricordato solo per chi non conosce le dinamiche del diritto e della procedura penale – rappresenta la pretesa punitiva tanto della collettività quanto della singola persona offesa!) di superare questa prova di resistenza e fugare ogni dubbio sulla sua tesi accusatoria (art. 112 Cost.);

- per il giudice di ricostruire la verità processuale oltre ogni ragionevole dubbio e di giustificare così la sua decisione agli occhi del popolo (art. 101 Cost.).

 

Bisogna tornare a celebrare i processi e, al contempo, garantire che siano rispettati i diritti di tutte le parti, le prerogative del giudice e le aspettative del popolo: la ritualità non è fatta di orpelli rinunciabili, ma di dialettica e fisicità che non possono essere cancellate senza pregiudicare la “giustizia giusta”!


E allora, in ordine alle udienza dibattimentali: occorre riprogrammare le modalità di fissazione delle udienze, con orari certi e prenotazioni che tengano in considerazione la pluralità di impegni degli avvocati (non va dimenticato che, a differenza dei magistrati che celebrano un’unica udienza al giorno “accogliendo” nelle loro aule le parti, il singolo avvocato potrebbe dover assistere, lo stesso giorno, diversi imputati in diversi processi); pretendere l’uso da parte di tutti gli operatori dei necessari dispositivi di protezione; limitare l’accesso al pubblico, garantendo (quello sì) lo streaming dei dibattimenti (i costi che andrebbero sostenuti per dotare ogni aula di telecamere e microfoni sarebbero certamente più contenuti di quelli per realizzare il processo da remoto); consentire il deposito degli atti difensivi e il recupero delle copie degli atti processuali e dei documenti depositati dalle altre parti mediante PEC; comunicare alle parti sempre con posta elettronica ogni rinvio, per qualsiasi motivo, dell’udienza (in linea con i tempi e con la futura riforma del processo penale, garantire all’imputato solo la prima notifica, quella relativa al rinvio a giudizio, ed effettuare tutte le altre solo al suo difensore; allo stesso modo, alla persona offesa andrà notificata solo la prima udienza e, qualora non si costituisca parte civile, quella nella quale verrà sentita come testimone).

 

Nelle indagini: se, da un lato, è necessario garantire al pubblico ministero di lavorare in smart working con la polizia giudiziaria e con tutte le altre PP.AA. tutte le volte che la presenza fisica non sarà indispensabile, allo stesso modo dovrà prevedersi un meccanismo che garantisca la dialettica con l’indagato o con la persona offesa e i rispettivi difensori, perché è bene ricordare che la fase delle indagini, pur non sussistendo la parità delle parti (perché non ci sono “parti” se non dopo l’esercizio dell’azione penale), è presidiata dall’obbligo di svolgere tutti gli accertamenti anche a favore della persona sottoposta alle indagini. E così, tutte le volte che le modalità delle indagini dovessero far cadere il segreto investigativo, sarà necessario predisporre la possibilità per l’avvocato di prenotare e ottenere un incontro con chi procede alle indagini e con chi decide o ha deciso in ordine alle misure cautelari su beni o persone.

 

Per le indagini difensive sarà più semplice prevedere uno snellimento delle procedure quando – non solo il privato, ma anche – la P.A. sarà più solerte nei tempi di risposta alle richieste provenienti via PEC da parte degli avvocati.

 

Basterà? Certamente no…perché questo lockdown e il conseguente rinvio forzoso dei processi ha aggravato il già pregiudicato carico processuale!

 

Occorrerà, allora, un intervento importante che produca – anche artificiosamente – quella normalità già compromessa ancor prima dell’arrivo di quest’emergenza sanitaria, in modo da risolvere due annosi problemi: da un lato, l’ingolfamento delle udienze di processi che non vedranno mai la fine (e che, peraltro, rallentano la definizione degli altri) o per i quali la tipologia di reati imputati meriterebbe la celerità e la maggiore certezza della sanzione amministrativa; dall’altro, il sovraffollamento carcerario, disponendo la liberazione di quelle persone detenute il cui residuo di pena non consente di dubitare di una possibile risocializzazione.

 

In poche e semplici parole: depenalizzazione, amnistia e indulto (non come nel 2006, quando si decise di varare il solo indulto che, invece di alleggerire la macchina, ha finito per aggravare la situazione).

 

È arrivato il momento di un vero e proprio reset giudiziario: oramai urgente e improcrastinabile per mille motivi anche di emergenza sanitaria!

 

Se non ora quando…e, soprattutto, senza tentennamenti e senza sterili discussioni fra libertari e liberticidi o fra pseudo-destre e pseudo-sinistre, perché ogni giorno senza azzerare questo ritardo è un giorno perso a danno della … legalità!


 

*Catello Vitiello è deputato di Italia viva, Commissione Giustizia