Difendere Facebook dalla giustizia italiana

Redazione

Il guaio della sentenza su CasaPound è il tic contro la libertà dei privati

Nel contenzioso che ha visto contrapposte CasaPound e Facebook c’è un dettaglio dal quale conviene prendere le mosse per trovare una chiave di lettura all’ordinanza del tribunale di Roma che ha imposto alla più importante piattaforma social del mondo di riattivare le pagine che aveva oscurato lo scorso mese di settembre. Il dettaglio si annida nella condanna alle spese legali che il tribunale ha ritenuto d’infliggere alla multinazionale di Zuckerberg (a favore dei ricorrenti) nella misura di 15.000 euro per un processo che si è consumato in una sola udienza, attraverso, peraltro, un procedimento cautelare semplice e spedito. Un infinitesimo di bazzecola per un colosso come Facebook, ma un’entità, quella delle spese legali, anomala agli occhi di chiunque frequenti le aule della giustizia italiana e che potrebbe disvelare il pregiudizio culturale che sembrerebbe avere guidato l’argomentazione della decisione del tribunale. Non pensi Facebook di essere un’impresa privata in grado di disciplinare la propria policy come più le aggrada e non s’azzardi a utilizzare lo strapotere che le deriva dall’essere la piattaforma più utilizzata al mondo per annientare la libertà di manifestazione del pensiero di due dei suoi 2,8 miliardi di utenti sparsi per il globo. Nemmeno quando si tratta di mettere a freno l’incitamento all’odio e i panegirici sul ventennio fascista che in epoca di gravi turbamenti populisti si diffondono per le pagine social.

 

 

Facebook, secondo il tribunale, avrebbe perso le sembianze della creatura di successo nelle mani degli azionisti che vogliono drenarne profitti e sarebbe transitata nella dimensione pubblica, laddove le decisioni sulle modalità di gestione del privato non spettano più esclusivamente a management e proprietà. Per questo, dovrebbe persino farsi carico della promozione e della tutela del pluralismo dell’informazione, alla stregua di un concessionario di servizio pubblico qualsiasi, e non potrebbe sottrarsi all’obbligo di rendere conto anche alla magistratura italiana del modello di gestione prescelto. Ma che un giudice dica a un’impresa privata di ospitare soggetti non graditi non è altro che l’ennesimo colpo di statalismo contro le libertà individuali.

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