Luigi Di Maio ( a destra) e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (foto LaPresse)

Benedetto emendamento

Redazione

La sconfitta del governo sul peculato ci salva da una legge manettara

L’attenzione si è appuntata sull’aspetto politico del voto parlamentare sulla legge anticorruzione, nel corso del quale il governo è stato battuto per la prima volta alla Camera, dove gode di una maggioranza piuttosto ampia. Questo ha messo in secondo piano il merito dell’emendamento, che corregge l’eccesso di giustizialismo manettaro per i casi di abuso d’ufficio e di peculato. L’abuso di ufficio, si sa, è un reato dalla difficile tipizzazione: si tratta di stabilire quando il diritto a esercitare scelte discrezionali, che è tipico dell’autorità politica, supera i limiti consentiti, che peraltro sono assai difficili da definire. La tendenza più recente è stata quella di restringere questi limiti fino a trasformare chi è eletto per operare delle scelte in un mero esecutore burocratico di procedure “neutre”. Proprio per contrastare questa deriva, che finisce con lo spingere gli amministratori a non assumersi le responsabilità del loro incarico con effetti paralizzanti, è giusto opporsi a un inseverimento delle pene previsto nel provvedimento emanato dal governo. Lo stesso si può dire per il peculato, che è un reato più grave e più definito, ma che ha subìto anch’esso, per effetto di campagne sensazionalistiche sulle spese o sui rimborsi “folli” degli amministratori, una dilatazione impropria. I 5 stelle insistono a denunciare un’azione presunta di franchi tiratori leghisti che avrebbero voluto togliere dai guai amministratori implicati in vari processi della cosiddetta “Rimborsopoli”. Può darsi che una delle motivazioni sia questa, ma ciò non toglie che, in termini generali, resta il fatto che trattare una censurabile disinvoltura nella ricezione di rimborsi non sia certo un reato così grave da giustificare un aumento delle pene, già consistenti nell’ordinamento vigente.

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