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Marc Hirschi e la monarchia del Muro di Huy alla Freccia Vallone

Il solito cerimoniale è stato rispettato: sotto il campanile della basilica di Notre-Dame de la Sarte il gruppo è arrivato in processione

Giovanni Battistuzzi

Lo svizzero ha preceduto il francese Benoît Cosnefroy e il canadese Michael Woods allo stesso modo che non cambia dal 2004: gruppo semicompatto e lungo sprint verticale

Un monarca non ammette eccezioni alla propria giustizia. E poco importa se questo sia illuminato, di animo pio, affascinante e convincente, la sua legge è assoluta, ogni varianza non solo è non è tollerata, è presa nemmeno in considerazione. Ci vorrebbe l’ardire di una miriade di folli per scombinare il sistema, sgretolare alla base il potere, provare a ristabilirne uno nuovo.

 

Il ciclismo attrae il coraggio, la creatività, una sana voglia di insurrezione, ma respinge, quasi sempre, la follia. C’è sempre un barlume di lucidità anche nelle mattate, un calcolo, per quanto rapido e a volte estemporaneo, dei costi e dei benefici. E quando i primi sono troppi, per arrivare ai secondi si sceglie la via più facile, ossia la vita di gruppo, il non eccedere nell’azzardo.

 

La Freccia Vallone ha un monarca dal fascino smisurato, dalla bellezza talmente palese da essere lapalissiana. Poco meno di un chilometro di vertigine, una strada che sembra diretta al cielo, una via crucis reale divenuta calvario a pedali. I corridori in cima al Muro di Huy ci arrivano al rallentatore, uno dietro l’altro, una processione che ben si intona con il nome della strada, Chemin des Chapelles, cammino delle cappelle. Un monte sacro che un secolo fa si faceva in ginocchio, con sette cappelle che elevano la fede verso la basilica di Notre-Dame de la Sarte.

 

È dal 1985 che il Muro di Huy è atto conclusivo della Freccia Vallone. È dal 2004 che ha imposto il suo potere assoluto. C’ha impiegato un po’ a diventare tiranno, ma il suo volere è riuscito a imporlo e tutto sommato nessuno si è mai veramente opposto a tutto ciò. Perché il Muro di Huy spaventa, ai suoi piedi ci si sente piccoli, insicuri di gambe, soprattutto di testa. Ha detto bene Marc Hirschi che la Freccia Vallone si vince di gambe, ma soprattutto di testa, di capacità di sopportare il bruciore a polpacci e quadricipiti. Chi vince sa quello che dice. Soprattutto se quello che dice non si oppone a quello che hanno detto Alejandro Valverde, “serve non pensare alle gambe” e Julian Alaphilippe, “serve tempismo, questione di dieci metri: se sono di troppo sei finito”. Da sei anni i prediletti del monarca.

 

 

Non oggi però. Marc Hirschi primo, secondo Benoît Cosnefroy e verrebbe da pensare a una nuova èra, a una sommossa, se non nei modi, quantomeno nei nomi. Se non fosse che Valverde non c’era. Ha energie da preservare per Liegi e Vuelta, e chissà magari per quella stramba idea Fiandre che s’è insinuata nella sua testa quarantenne. Se non fosse che Alaphilippe neppure. Ha una maglia da campione mondiale da gustarsi, un Tour sulle gambe e un appuntamento con la Liegi. Ma tant’è cambia nulla. Perché Hirschi è uno pragmatico, che pensa al presente e che sa che il futuro è sempre un’incognita, che serve prepararsi al meglio per affrontarlo ma mai con ansia. Anche perché non si può avere ansia a ventidue anni da poco compiuti e con due gambe e due polmoni che funzionano a meraviglia. Soprattutto se a meraviglia funziona pure la testa: razionale e chirurgica, come il suo allungo a un centinaio di metri dal traguardo con il quale si è liberato di quel volpone da strappi che è Michael Woods.

 

Hirschi e Alaphilippe avranno tempo per sfidarsi tra le côte valloni, darsi battaglia a furia di scatti, di allunghi, di menate. Forza e coraggio non manca a nessuno dei due. La follia di sfidare la legge del monarca di Huy chissà. Sarebbe un bel ardire.

 


 

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