Di un gregario ci si può fidare. L'Americana di Rowe e Hofstetter al Tour de France

Nel corso della seconda tappa della Grande Boucle il gallese del Team Ineos Grenadiers ha dato un cambio all'americana al corridore francese che corre per la Israel Start-Up Nation

Giovanni Battistuzzi

Che le salite, le discese, i piani e i falsopiani siano uguali per tutti i corridori è un dato di fatto, così come è un dato di fatto che la percezione delle salite, delle discese, dei piani e dei falsopiani non siano uguali per tutti i corridori. Dipende da peso, stazza, sopportazione della sofferenza. C'è chi riesce a non badare ai muscoli che bruciano meglio degli altri: propensione al martirio, direbbero i non ciclisti, godimento della fatica dice invece chi i pedali li fa girare regolarmente. Punti di vista dialettici che lasciano il tempo che trovano, perché troppo legati alla capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro, all'empatia.

  

In corsa l'empatia è una brutta bestia dalla quale tentano di sfuggire in ogni modo i campioni, intenti come sono a inseguire ben altre pulsioni: volontà di dominio, sopraffazione, a volte sadismo. D'altra parte quando “nella testa di un capitano inizia a intromettersi il tarlo dei sentimenti, della pietà per i secondi, è meglio che cambi ruolo in una squadra”, raccontò Jacques Anquetil, uno che mai ha provato a porsi nei panni dei battuti. Soprattutto in quelli del suo grande rivale: Raymond Poulidor. Leggenda vuole che sul letto di morte Anquetil, rivolto verso PouPou, che era andato a trovarlo, disse: “Anche questa volta sei arrivato secondo”.

 

Eddy Merckx più di una volta ha ammesso di essere stato spietato in corsa. E di non essersene mai pentito. Fausto Coppi più di una volta ha ammesso di aver provato compassione per le sorti dei colleghi. E di essersene pentito, ma non troppo, “semplicemente doveva andare così”. Tra i due ballano qualche centinaia di vittorie, un gap che forse poteva essere minore.

 

“Tra un amico campione e un amico gregario, meglio avere il secondo. Per il semplice fatto che di un gregario ti puoi fidare”, sintetizzò Vicente López Carril, che gregario era nato, capitano lo era diventato a forza di scatti in salita. Una questione d'empatia, di capacità di porsi nei panni altrui, di capire che l'andare in bicicletta è una faticaccia, molte volte uno sforzo inutile, qualche volta buona per festeggiare vittorie altrui, “ma che in squadra, in un modo o nell'altro, vengono percepite come di tutti”.

 

Di un gregario ci si può fidare, anche se si è un avversario, ché tanto in bicicletta ci si va tutti per le stesse strade e la salita ti porta a valle allo stesso modo. Almeno se non si ha il “motore” di Eddy Merckx.

 

Che di un gregario ci si possa fidare l'ha dimostrato ieri al Tour de France Luke Rowe quando all'hop di Hugo Hofstetter, intento alla rincorsa del gruppo, il gallese ha risposto porgendo la mano per un lancio all'americana. Che non sarebbe consentito, ma come si può condannare l'empatia?

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