Il corridore spagnolo Luis León Sánchez indossa la mascherina durante il giro di presentazione del Tour de France 2020, a Nizza (foto LaPresse)

Comincia il Tour de France, chissà se finisce

Giovanni Battistuzzi

Attese e incertezze al via di una Grande Boucle blindata. Pronostici impossibili, ci sarà da divertirsi

Sino ai primi anni Cinquanta del Novecento alla Crique de la Causière, qualche centinaio di metri quadri di rocce e insenature che costituiscono il punto più a sud della penisola di Cap-Ferrat, esistevano degli uomini che, ascoltando lo sciabordio delle onde che si frangevano sugli scogli, riuscivano a capire come sarebbe andata l’annata di pesca. E questo, per una comunità che basava la propria sussistenza sul pescato, voleva dire essenzialmente predire il futuro. Il primo giorno dell’anno, qualche ora prima del vespro, uomini, donne e bambini accompagnavano il santone per chilometri e in un silenzio totale, interrotto soltanto dal suono del mare e da quello del vento, aspettavano il responso. Il turismo, più che la scienza, cancellò questa tradizione secolare. Ci fosse ancora uno di quei santoni, probabilmente anche il patron del Tour de France, Christian Prudhomme sarebbe tentato di farci un salto.

 

  

Oggi, sabato 29 agosto, dal faro di Cap Ferrat vedrebbe Nizza colorarsi di giallo, la Grande Boucle partire e arrivare. E dopo essere sceso sino alla Crique de la Causière potrebbe trovare la risposta che ancora non ha: arriveremo a Parigi? Contattato dal Foglio Sportivo, un membro dell’organizzazione ha sospirato e detto: “Al momento dovrebbero esserci le condizioni per finire la corsa. Al momento però. È tutto un gran casino. Molto dipenderà da quanto regge la bolla. La cosa che ci fa stare un po’ più tranquilli è che abbiamo scelto un buon sapone”. Un sapone che prevede alcune norme inderogabili “per salvaguardare la salute dei corridori – si legge nella nota di Aso, la società che organizza e gestisce il Tour –, del personale delle squadre, di tutte le altre persone coinvolte e, così facendo, garantire che l’evento possa andare avanti”: limitazioni dell’entourage, trenta persone al massimo per squadra compresi gli otto corridori, tamponi e test sierologici per tutti prima della corsa e nelle due giornate di riposo, nessun contatto con esterni. Se due corridori di una squadra saranno trovati positivi o manifestano sintomi più o meno gravi (Prudhomme ha dato anche un intervallo di tempo: “In sette giorni”), tutto il team sarà espulso dalla Grande Boucle. Ma non prima del controtest, quello al campione B: il ciclismo di queste cose se ne intende.

 

Saranno i medici delle squadre, tra un test e l’altro, a dover redigere un documento sullo stato di salute di tutti i membri della compagine. Un filo sottile sul quale tentare di correre in equilibrio nella speranza di non cadere. Un’incertezza che però non è prerogativa soltanto della gestione della pandemia, ma che attanaglia anche corridori e direttori sportivi. Perché dopo decenni di cura maniacale della preparazione atletica, di tabelle di allenamento da rispettare, wattaggi da tenere e altre valutazioni che elevavano la fisica e la biomeccanica a regine indiscusse di ogni scienza, al via della prima tappa di Nizza nulla è certo, nessuna tabella è stata rispettata al cento per cento.

 

Tutto ciò, in uno sport come il ciclismo che è fatto di consuetudini, e di prassi che difficilmente mutano, equivale a parlare di fantasmi in una seduta spiritica: fa cresce ansia e incertezza. D’altra parte in questi anni la forma fisica è diventata un algoritmo, una curva che prevede due (a volte tre) picchi, salite nelle quali si cerca l’altura e gare di rodaggio, e discese dove si mette a punto la gamba per quella successiva. Si centellinano forze ed energie, eliminando tutto ciò che non è funzionale: gli scatti e gli azzardi. E se tutto ciò si inceppa ecco che i dubbi di molti diventano gli innesti di fantasie strane, di intuizioni folli di rivoluzioni a pedali. Le mattate assumono forme molto più attraenti e l’idea che nulla sia già scritto, né vincitori né vinti, può creare bizzarre speranze.

 

La logica del tutto e subito ha iniziato a riprendere spazio, ha ritrovato una sua dimensione. Ne sanno qualcosa le squadre al via che hanno dovuto rivedere i loro piani, modificando i protagonisti sul loro scacchiere. Come ha fatto il Team Ineos, che al Tour si vestirà di blu e si farà chiamare Grenadier per sponsorizzare il gippone del gruppo, lasciando a casa gli alfieri di vittorie passate, Chris Froome e Geraint Thomas, perché altri stavano meglio.

 

Anche chi sarà al via però partirà con l’idea che di gerarchie ce ne saranno poche e che la corsa, nonostante lo strapotere dimostrato nelle gare di preparazione del Team Jumbo-Visma, potrebbe non essere quella che ci si aspetta. Un po’ perché sia Egan Bernal, il vincitore della scorsa edizione, sia Primoz Roglic, il corridore che dopo il ritorno alle corse ha dimostrato di stare meglio, sono un po’ ammaccati. Soprattutto perché il peso dell’incertezza potrebbe rallentare chi patisce l’instabilità, il non sapere cosa l’attende. Raccontava Alfredo Binda che la grandezza di Gino Bartali non stava nel fisico ma nella capacità di “affidare al Signore tutto se stesso, avere sempre la serenità di chi sa che esiste qualcosa di più grande chiamata Provvidenza”.

 

A chi gli faceva notare che il Gino era più brontolii che calma, rispondeva: “Borbottare è una questione di bocca, essere tranquilli una questione di testa”. E molte volte se l’agitazione prende il sopravvento anche le gambe migliori smettono di girare come sanno. Toccherà alla faccia tosta e all’immaginazione trovare gli spiragli giusti per mettere in crisi tutto il sistema, rivoltare le logiche di gara. L’improbabile potrebbe entrare nel gruppo per creare scompiglio, premiare la tenacia e l’azzardo, rendere questa corsa, proprio per questo, indimenticabile. Anche perché, mai come in questo Tour servono le qualità che un Diavolo Rosso ormai in avanti con gli anni e giù di bicicletta chiedeva ai suoi uomini: “Tocca avere palle, che mica tutto è andato”.

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