Le lacrime diverse dei fratelli Herrada alla Vuelta

Jesus Herrada vince la sesta tappa della corsa spagnola. Un successo che "vendica" il pianto all'arrivo del fratello José dopo il terzo posto di ieri

Giovanni Battistuzzi

Nella famiglia Herrada il ciclismo è sempre stato lo sport di casa. Era la passione del padre che in bicicletta ci andava ogni volta che poteva. Era la passione del nonno che non si perdeva nessuna corsa in bicicletta. È diventato il mestiere di José e Jesus. Corridori, come sognava di diventarlo il padre, come loro nonno sperava diventasse il figlio. Come nessuno dei due, padre e nonno, pensavano diventassero loro. Perché a José e Jesus le biciclette sono sempre piaciute, ma al ciclismo, almeno da piccoli, aveva preferito il calcio. Il primo centrocampista, il secondo difensore. Il primo più bravo a impostare il gioco, il secondo più in gamba a distruggere quello altrui.

 

José e Jesus sono fratelli e in quanto fratelli ogni tanto bisticciano, ma in fin dei conti si vogliono un gran bene. Dicono di essere diversi, ma nemmeno poi tanto. Dicono di farsi la guerra in allenamento, ma nemmeno poi tanto. Dicono di essere scalatori, ma nemmeno poi tanto. Dicono di non correre troppo assieme, ma nemmeno poi tanto. E un po' se ne rammaricano. "Perché sarebbe fantastico correre sempre l'uno al fianco dell'altro, ma le corse in calendario sono tante e molte volte le nostre strade si devono separare". Quando però si incontrano, quando si ritrovano affiancati sulla bici ecco che appare chiaro che sono la stessa cosa: cacciatori di fughe, libertari del pedale.

 

C'è stato un tempo nel quale in molti prevedevano per José un futuro da vincente. Era il 2010 e lui sorrideva, arrossiva e sviava il discorso: "Dovete vedere mio fratello, va più forte di me". C'è stato un tempo nel quale in molti prevedevano per Jesus un futuro da ottimo interprete per le corse a tappe. Era il 2014 e lui sorrideva, arrossiva e sviava il discorso: "È mio fratello José quello forte dei due, io al massimo posso fargli da gregario".

 

Né uno, né l'altro hanno sono però mai caduti nella "trappola" dell'inseguimento alla classifica generale. Si sono accorti subito che non era per loro, hanno entrambi capito che era meglio inseguire l'improbabile che inseguire e basta i primi. Sono passati da anni di gregariato per altri, hanno trovato alla Cofidis la possibilità di mettere in pratica la loro idea di ciclismo. Un'idea che suona più o meno così: attaccare, attaccare, attaccare.

 

Ieri, verso l'Observatorio Astrofísico Javalambre, c'aveva provato José. Un tentativo (a tre con la coppia della Burgos Madrazo-Bol) che sembrava una mattata, una missione impossibile. Mattata lo è stata, impossibile no, perché i tre hanno visto lo striscione d'arrivo prima degli altri. Peccato, almeno per la Cofidis, che abbia vinto Madrazo. José Herrada dopo l'arrivo ha pianto. Di rabbia.

 

Oggi, verso Ares del Maestrat, c'ha provato invece Jesus. Via in undici con gente tosta e di gamba. Via in undici e con il gruppo che sembrava non avesse la minima voglia di lasciare andare nessuno, specialmente loro. Ma gli inseguitori fanno sempre i conti nella musette, mentre gli avanguardisti no. E così quegli undici, poi diventati dieci per l'abbandono di Van Garderen, hanno trovato spazio e tempo per arrivare. E da dieci sempre meno. La salita finale ha spento la voglia di evasione di Oliveira e Grmay, ha esaltato quelle di Dylan Teuns, fremente di vestire una maglia rossa che credeva preclusa a prescindere. Il belga così si è messo a spingere come un dannato sui pedali fregandosene di cosa gli succedeva attorno. E attorno non succedeva niente. Solo un'ombra silenziosa in maglia Cofidis alle sue spalle che stringeva i denti e lo seguiva. Un'ombra che sapeva come sarebbe finito tutto: maglia a te e tappa a me. È rimasto in scia, ha resistito, poi si è alzato sui pedali e ha raggiunto l'arrivo. Solo. Jesus Herrada dopo l'arrivo ha pianto. Di gioia.

 

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