Illustrazione di Riccardo Guasco

Tutti i colori del Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

Sono iniziate le tre settimane della corsa a tappe più importante d’Italia. Campioni e gregari, maglie, biciclette, panorami e tonalità di una passione: una mostra e un libro da non perdere

C’era una strada vuota, uomini e donne sulla banchina, aria di festa e senso di attesa. Un’attesa che si trasformava in un ronzio, per poi diventare un brusio, una polifonia di rumore. E all’avvicinarsi del suono, gli occhi scorgevano una nuvola di polvere, che si avvicinava velocemente e da questa apparivano i corridori in una burrasca di colori. Ruote nere, biciclette scintillanti e metalliche. E sopra queste magliette e pantaloncini e cappellini che diventavano policromia, un sovrapporsi di tinte. Una visione di un attimo, qualche secondo che si stingeva nel biancore del pulviscolo sollevato dagli pneumatici.

 

Il Giro 101 è partito ieri da Gerusalemme e arriverà domenica 27 maggio a Roma, dopo 21 tappe e 3.563 chilometri

Otto arrivi in salita, due cronometro e molte tappe incerte. Sarà sotto le cime delle Dolomiti che la corsa troverà il suo colore

C’era una strada vuota e c’è ancora, anche se gli uomini e le donne sulla banchina sono cambiati e cambiano ogni anno, anche se il ghiaino è stato sostituito dall’asfalto e la polvere è sparita. Il resto non è mutato: la stessa attesa, lo stesso suono, le stesse visioni. Colori che si avvicinano, che si sovrappongono, che passano. Il ciclismo è essenzialmente questo. Il Giro d’Italia, che ieri ha intrapreso il suo centunesimo viaggio attraverso il paese (anche se nel suolo italiano arriverà solo martedì dopo aver corso le prime tre tappe in Israele), è la sua massima espressione nostrana, tre settimane di scenari che si colorano e scolorano al passaggio dei corridori.

 

“Che flusso di immagini, che fiume di colori. Lo rivedo ancora quel turbinio di velocipedi, tutte quelle biciclette che sfrecciavano riflettendosi sull’Arno, un mosaico di pennellate in movimento, come fosse la rappresentazione armonica della velocità”, scriveva l’artista Umberto Boccioni dopo aver visto i corridori del Giro d’Italia entrare a Firenze il 23 maggio 1909. Era quella la prima edizione della corsa e nel capoluogo toscano sfrecciò Luigi Ganna, il primo nome che si incontra nell’albo d’oro.

 


Umberto Boccioni, 1913, Dynamism of a Cyclist (Dinamismo di un ciclista), oil on canvas, 70 x 95 cm, Gianni Mattioli Collection, on long-term loan to the Peggy Guggenheim Collection, Venice


 

Ancora oggi guardare una corsa, osservare “le maglie dei ciclisti e quella moltitudine di biciclette che si muovono è come trovarsi in un caleidoscopio di colori”, dice al Foglio l’illustratore Riccardo Guasco. Un mondo che già a inizio del Novecento aveva colpito quello dell’arte, aveva ispirato pittori, da Umberto Boccioni a Marcel Duchamp, da Fortunato Depero a Mario Sironi, aveva fatto innamorare scrittori, da Aldous Huxley a Henry Miller, da Alfredo Oriani a George Bernard Shaw, premio Nobel per la Letteratura nel 1925, che si appassionò alla bicicletta sul finire dell’Ottocento e al ciclismo nel 1904, quando a Parigi vide l’arrivo della seconda edizione del Tour de France “quel serpentone multicolore di uomini in fuga dalla fatica che disegnavano per le vie una veloce follia”, la stessa che rende “la bici necessaria all’uomo”, perché “il ciclismo eleva lo spirito”.

 

Guasco a questo sport si è avvicinato recentemente, “per prossimità territoriale”, per il richiamo delle sue terre, le stesse di Costante Girardengo e Fausto Coppi, quell’alessandrino a pedali che tra Ottocento e Novecento ha dato il via all’invasione di biciclette in Italia e dove la bici “c’è ancora, si vede, si percepisce”. “Non sono un ciclista, non è la passione per il ciclismo che mi ha avvicinato, anche se Coppi è stato il gancio da traino per farmi approdare a questo mondo”, racconta. Tutto è iniziato con i racconti del ciclismo d’antan: “Ho iniziato con il teatro, realizzando le scenografie per alcuni monologhi sui campioni del passato. Ho visto nella bicicletta una parabola di vita: la fatica, la salita, il fango, il sudore che diventavano tutt’uno con questo mezzo. Ma è solo quando ho visto un documentario su Coppi, nel quale per minuti e minuti si vedeva il suo volto mentre pedalava, che qualcosa è nato: c’era sofferenza e passione in quel viso e nel profilo si scorgeva il racconto di un mondo intero. Sono rimasto colpito da un punto di vista artistico, ne ho compreso la bellezza come forme, geometrie, colore”.

 


Illustrazione di Riccardo Guasco per la copertina del libro di Giacomo Pellizzari "Il carattere del ciclista"


 

E’ da circa otto anni che Riccardo Guasco ha iniziato a inserire la bicicletta nelle sue illustrazioni, e non ha intenzione di smettere: “La bici sta vivendo l’alba di una nuova epoca d’oro e spero che nel mio piccolo i lavori che faccio possano spingere qualcuno ad appassionarsi a questo mezzo”. Giovedì scorso ha inaugurato la sua mostra (aperta fino al 1 luglio) al secondo piano di Palazzo del Monferrato, l’edificio che ospita il Museo Acdb – Alessandria Città delle Biciclette. Si intitola “Veni, vidi, bici” (è frutto dell’impegno di Comune e Camera di Commercio di Alessandria con il patrocinio del Touring Club Italiano) ed è un ritorno della bici, questa volta illustrata, lì dove tutto era iniziato. Perché nel 1867 l’imprenditore Carlo Michel ritornò ad Alessandria dall’Expo di Parigi con un velocipede Michaux. Era il primo a percorrere le strade italiane. Lì dove, mentre l’Ottocento volgeva al termine e l’Italia ancora era scettica sulla possibilità di lasciar circolare le biciclette nei centri urbani, già si pedalava ovunque. Radici di un tempo che tornano a germogliare, la stessa passione, una nuova storia che riparte da illustrazioni che richiamano alla mente i manifesti degli anni Dieci e Venti del secolo scorso.

 


Il manifesto della mostra Veni, vidi, bici


 

Forme morbide che si accavallano con volti spigolosi, sfondi sfumati che diventano colori accesi, che diventano uomini in bicicletta, acciaio e muscoli, pelle e lana. Quella delle magliette, di quelle maglie che cambiano spesso, che “si modificano nel tempo, ma che ogni tanto diventano dei codici colore che caratterizzano alcuni uomini e alcune epoche”, dice Guasco, perché nella storia del ciclismo “ci siano alcuni campioni che sono stati caratterizzati soprattutto da un colore”.

 

Per Guasco guardare “le maglie dei ciclisti e le biciclette che si muovono è come trovarsi in un caleidoscopio di colori”

Il rosa è il colore del Giro dal 1931. Mussolini tentò di impedirlo: non ci riuscì. Da allora è la tinta dei sogni del ciclismo italiano

Perché il Giro d’Italia è colore, è il “verde rigato di terra delle colline o il blu che si tinge di celeste del mare, che i corridori costeggiano pedalando sul nero del serpentone d’asfalto che lo costeggia” racconta Guasco. Che è poi il verde dei tre trionfi di Gino Bartali, quello della Legnano, e lo stesso celeste di quattro delle cinque affermazioni di Fausto Coppi, quello della Bianchi. Perché se è vero che la passione nel ciclismo non ha squadre, ma uomini, ci sono alcune maglie che hanno superato l’oblio del tempo per diventare icone e simboli.

 

E così il giallo ricorda le ondate di scatti degli spagnoli volanti della Kas, le fughe montane di Francisco Galdós e José Manuel Fuente, camosci da salita, con la sola sfortuna di aver trovato un Cannibale che di color camoscio (Molteni) è stato vestito per anni: Eddy Merckx. E gialle saranno anche le imprese alpine di Marco Pantani, bardato nelle vittorie e nelle sconfitte dalle casacche della Mercatone Uno, dopo aver vestito il bianco-jeans della Carrera-Tassoni.

 

E così il rosso sarà per sempre sinonimo di velocità del treno Faema (poi Flandria infine Solo-Superia) di Rik Van Looy e di quello Saeco di Mario Cipollini.

 

E così l’azzurro sarà quello delle prime vittorie di Felice Gimondi, quello bordato di rosso e di nero della Salvarani. Lo stesso che copriva le maniche e le spalle di Francesco Moser all’ingresso dell’Arena di Verona in quell’ultima pazzesca cronometro che gli consegnò la vittoria dell’edizione del 1984.

 

Sono gli altri colori del Giro, quelli che sono passati senza passare davvero, diventando ricordo, contorno di colori più gloriosi, raccolti da Chris Sidwells in storie e in immagini in un libro che è nostalgia, che è “Le maglie leggendarie del ciclismo” (Ediciclo editore). Sono le maglie che hanno vestito e accompagnato i nostri beniamini, quelle che “non dividono ma moltiplicano, che non muoiono mai. Accompagnano, conducono, spiegano”; quelle che “viste in corsa, sono coriandoli. Viste in gruppo sono macchie. Viste alla partenza sono squadre. Viste all’arrivo sono corridori”, scrive Marco Pastonesi nell’introduzione. Che viste così sono tutti i colori di una passione, che a maggio si chiama Giro d’Italia.

 

Nel ciclismo i colori appaiono, spariscono, ritornano, alcuni rimangono negli occhi e nella memoria, altri si perdono, necessitano dei ricordi. E’ un continuo scomporsi e ricomporsi, stagione dopo stagione. Se nel calcio un colore è per sempre, il ciclismo se ne può fregare dell’amoreggiamento cromatico: le squadre sono solamente un contenitore di uomini, di storie che pedalano lungo altre storie, quelle delle corse. E’ una transumanza multicolore quella delle biciclette, sia che si tratti di quella veloce che vaga alla ricerca della vittoria, sia che si tratti di quella domenicale di uomini e donne a due ruote che cercano solamente di non staccarsi troppo dagli amici.

 

Ci sono però tonalità che rimangono costanti e si fanno contenitori di sogni e ambizioni, desideri e speranza, a volte intere carriere ed esistenze. Sono tinte che identificano una corsa, che sono storia e storie, che sono intere nazioni. Il giallo è un campo di girasoli affianco a una strada assolata, è soprattutto maglia, Francia, Tour de France, vessillo del più forte. Al di qua delle Alpi invece è il rosa il colore del migliore, quello della maglia più ambita e desiderata, quello che rappresenta cromaticamente il Giro e l’Italia che per tre settimane lo vede passare per le sue strade.

 

E’ così dal 10 maggio del 1931, da quando finì sulle spalle della Locomotiva umana, Learco Guerra. Prima non c’era, non esisteva, il primo era primo e basta: nessuno aveva ritenuto necessario renderlo immediatamente riconoscibile. L’inventore del Giro Armando Cougnet era da anni che cercava di convincere gli editori della Gazzetta dello Sport, il giornale che organizza la corsa, a imitare il Tour de France (che dal 1919 vestiva il capoclassifica con la Maglia Gialla), a istituire un riconoscimento cromatico per il più forte: una maglia color della carta del giornale, una maglia rosa. A nulla era servito insistere: Benito Mussolini non voleva. Già non vedeva di buon occhio quello “sport plebeo”, figurarsi se poteva accettare che il migliore indossasse quel colore poco adatto, “per niente virile, che avrebbe reso ridicolo agli occhi di tutti lo sport italico”. Ma Cougnet insistette, minacciò di andarsene e così il giorno prima della diciannovesima edizione, in un trafiletto, apparve la notizia dell’istituzione “del vessillo che guiderà il gagliardo plotone dei corridori e designerà l’alfiere più forte e più degno”. Il Duce non gradì, la considerò “una trovata poco fortunata”. Fu l’allora presidente del Coni, Leandro Arpinati, a convincerlo a chiedere la rimozione di Cougnet e della casacca, ché tanto il ciclismo era sport destinato a sopperire velocemente in favore di sport più moderni e spettacolari come il calcio e l’automobilismo. Fu un fortunato abbaglio, una svista clamorosa. Il ciclismo non sparì, continuò ad appassionare l’Italia, il patron rimase al suo posto e la Maglia Rosa “ancor oggi è il simbolo di una corsa e di un paese”, sottolinea Guasco.

 

Lo si vede per tre settimane nei paesi toccati dal Giro d’Italia, negli striscioni e nei palloncini che addobbano le vie. Quasi fosse una grande sagra itinerante.

 


Foto LaPresse


 

E di rosa si tingono pure le cime delle Dolomiti quando i primi raggi del sole le colgono al mattino e gli ultimi le sfiorano alla sera. E’ un fenomeno di rifrazione della luce che si chiama enrosadira, nient’altro che l’effetto visivo che si ha quando i raggi solari colpiscono un composto di carbonato di calcio e magnesio, quale è la dolomite. Ma questa è fisica, la leggenda parla di un re dei nani delle montagne chiamato Laurino che in cima ai monti aveva un roseto immenso e di un principe, Latemar, che lassù finì attratto dalla bellezza dei fiori e che per caso incontrò la figlia di Laurino, Ladina, se ne innamorò e la rapì per farla diventare la sua sposa. Il re dei nani si disperò, maledisse il roseto e tutto il suo regno: né di giorno, né di notte alcun umano avrebbe più potuto ammirarlo, dimenticandosi però dell’alba e del tramonto. E il ciclismo molte volte è sentimento, anche se non crede alle leggende. E così è bello pensare che questo sia un tributo al Giro di quelle che sono diventate le montagne simbolo della corsa, uno degli scenari montani più affascinanti.

 


Foto del centro turismo di Arabba


  

Anche quest’anno la lotta a pedali si tingerà di questo colore e lo farà ancora una volta nel suo terreno prediletto, la montagna. Sugli otto arrivi in salita (Etna, Montevergine di Mercogliano, Gran Sasso, Zoncolan, Sappada, Pratonevoso, Jafferau, Cervinia) i corridori si sfideranno per un colore che vuol dire storia, che vuol dire vicinanza, non solo cromatica, a campioni di epoche diverse, a nomi e cognomi incastonati per sempre in quella spirale di rame che è il Trofeo senza fine, il premio riservato al vincitore del Giro d’Italia. La salita è un tributo che la natura offre al ciclismo, la sua dimensione prediletta, quella più infame. E in questo paradosso c’è dentro tutto il fascino di questo sport.