Silvia Lippi

Silvia Lippi, corpo a corpo con Lacan

Davide D'Alessandro

A colloquio con l’analista di formazione lacaniana, che vive e opera a Parigi: “È stato il mio primo incontro con il pensiero psicoanalitico. È venuto prima di Freud, e ha condizionato e occupato gran parte della mia vita: ancora oggi mi scervello per cercare di capirlo. Non smetto mai di leggere i suoi scritti e seminari, e mi interrogo sulla pertinenza di certi suoi enunciati. Quello che mi convince in lui non è solo la sua forza innovatrice e clinicamente efficace, ma anche la sua posizione analitica, una posizione che è allo stesso tempo rigorosa, ironica e popolare: mai come con lui, la psicoanalisi ha brillato nel mondo della cultura internazionale”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

Preferisco cominciare dalla sua seconda domanda. L’analisi serve ad accettare la propria faglia, la propria frattura interna, o più semplicemente le proprie debolezze. Il semplice fatto di chiedere aiuto ad un estraneo, nella fattispecie un analista, è già un modo di ammettere che non si è padroni del proprio destino, che volere non è potere, e che vi è qualcosa che esce dal nostro controllo, dalla nostra azione. L’analisi ci permette di trasformare la debolezza in forza, rendendoci meno alienati alla nostra storia, ai traumi vissuti. “Potenza di esistere” dice Spinoza, “potenza” da non confondere con il “potere”, che invece rende schiavi. A partire dall’assunzione della propria frattura interna si apre uno nuovo spazio per l’invenzione. Ci vuole del tempo per vivere a fondo questa sensazione di sollievo e di apertura, ottenuta grazi alla perdita del potere (maîtrise): è una sensazione che si prova a livello del corpo e dello spirito, o più analiticamente parlando, del linguaggio. Ogni percorso analitico implica l’incontro con l’inatteso. Già l’amore di transfert (l’amore per l’analista) è qualcosa di imprevedibile, inimmaginabile, soprattutto all’inizio. “Perché dovrei raccontare la mia vita a uno sconosciuto?”, si chiedono le persone prima di cominciare un’analisi. “E perché mai dovrei amare il mio analista?”. Poi, inaspettatamente, cominciano ad avere voglia di andare alle sedute regolarmente, e a sentirne la mancanza quando c’è un impedimento. I detrattori della psicoanalisi parlano di “dipendenza patologica” e probabilmente hanno ragione. È la stessa dipendenza patologica che si può avere nei confronti di un sintomo: l’amore di transfert è una ripetizione, ma come ogni ripetizione, ci spiega Freud, porta del cambiamento. Qualcosa non va come ci aspettavamo (per fortuna!), ed è grazie a questa deviazione del percorso — clinamen, dice Lucrezio — che le cose cambiano. La psicoanalisi non è una terapia, ma un processo di trasformazione; in questo senso, i suoi effetti non possono essere valutati prima di cominciarla. In analisi, man mano, è un po’ come se il soggetto arrivasse a dimenticare il sintomo: e non pensandoci più, lo attenua. Nel migliore dei casi il sintomo scompare, ma questo avviene in modo indiretto, non controllato, inaspettato. Combattere il sintomo non aiuta: le difese dell’io si mostrano inefficaci, impotenti, sempre.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Ero appena arrivata in Francia, dopo aver traslocato prima a Roma da Bologna, e poi a New York da Roma. Le cose andarono grossomodo così: tornata a Roma, decisi di lasciare ancora l’Italia per una nuova meta: Parigi. La scelta non fu razionale, anche se a posteriori mi risulta completamente logica. Una cara amica, l’attrice Vera Gemma, che viveva all’epoca a Parigi mi telefonò dicendomi di avermi sognato in giro per Montmartre con lei. All’epoca facevo l’attrice ed ero completamente insoddisfatta del mio lavoro, che non riusciva a decollare. Così mi dissi: “Vado a Parigi!”. E l’ho fatto. È stato il sogno di Vera a smuovere il mio desiderio. A Parigi ho subito abbandonato la carriera di attrice, pur continuando a insegnare la danza per mantenermi. L’ambiente culturale parigino, così ricco ed effervescente, mi ha spinto a cominciare degli studi di filosofia alla Sorbona, e dopo poco è arrivato l’incontro con la psicoanalisi. Il mio primo interesse per la psicoanalisi è stato quindi di natura intellettuale: la psicoanalisi era il prolungamento del mio amore per la filosofia. Però non mi ci vedevo a gettarmi nella carriera universitaria, un po’ perché non me ne sentivo capace e un po’ perché non avevo voglia di perdere l'occasione di essere un po’ fuori dagli schemi, fuori dalle posizioni istituzionalizzate, autoritarie. La psicoanalisi, un po’ scienza e un po’ stregoneria, era invece perfetta. Quello che cercavo! Sono entrata in analisi per diventare psicoanalista. Ai miei sintomi non ci pensavo nemmeno, avevo imparato a conviverci. Intuitivamente non mi ero sbagliata: il vero problema era l’orientamento da dare alla mia vita, e la psicanalisi, associata a Parigi, era questa meravigliosa occasione per cambiare tutto. Non avevo niente da perdere, avevo già perso - lavoro, carriera, ambizione… -. Ero pronta: il clinamen era là.

Come scelse i suoi analisti?

Ho avuto un solo analista, e non avrei mai potuto averne altri: Gérard Pommier. Gli devo tutto, non solo l’uscita progressiva dal sintomo, ma anche il modo di essere analista oggi - quello che possiamo chiamare lo “stile” -, e soprattutto la scrittura: senza di lui non avrei mai osato pubblicare, e non avrei mai portato avanti gli studi di filosofia e di psicologia fino al PHD, come ho fatto. Vuole sapere perché ho scelto Pommier come analista? Innanzi tutto il nome: “Pommier” in francese significa “melo”, e quest’albero mi fa pensare a qualcosa di stabile, di ben ancorato, bello e sicuro. In più, la mela è un frutto meraviglioso per una come me che è sempre a dieta! Posso mangiare mele finché ne ho voglia, perché non fanno ingrassare! E mi ricordo che mio padre lasciava sempre un quarto di mela nel frigo, cosa che faceva imbestialire mia madre. “La mela nel frigo” era il suo tratto identificativo, tratto associato al messaggio seguente: “Bisogna sempre mangiare le mele perché fanno bene, ma non è necessario finire il piatto”. Ancora oggi queste parole mi ronzano nella testa, e mi aiutano quando tendo a ricadere nel sintomo. Queste mie associazioni possono già darle un’idea di come funzioni il transfert. Gérard Pommier è di orientamento lacaniano, anche se certamente non ortodosso. È stato un amore di transfert da manuale, descritto tante volte da Freud, nei suoi celeberrimi testi sul transfert (“Sulla dinamica del transfert” (1912), “Rimemorazione, ripetizione e perlaborazione” (1914), “Note sull’amore di transfert” (1914)). Se il desiderio di essere analista era già presente prima dell’analisi - desiderio preso ovviamente nelle varie catene immaginarie -, la scrittura è venuta dopo, all’interno del processo dell’analisi. Infatti un giorno decisi di far leggere al mio analista alcuni dei miei scritti universitari, e lui mi suggerì di proporli a delle riviste specializzate di psicoanalisi. Da quel momento, non ho più smesso di scrivere. E oggi posso dire che la maniera di vivere il mio lavoro non sarebbe stata lo stesso senza la scrittura. Ho finito la mia analisi da parecchi anni. Due anni fa ho ripreso una piccola tranche, durata meno di un anno, che mi ha aiutato ad affrontare un momento sentimentale complicato. Di momenti difficili ce ne sono stati altri, ma l’idea di ricominciare l’analisi non mi è più rivenuta. Secondo Lacan, l’analisi è finita quando il “grande Altro” cade, cioè quando il soggetto non si aspetta più di essere soccorso nei suoi momenti di Hilflosigkeit (inermità): in altre parole, quando capisce e accetta di essere solo di fronte al proprio desiderio. L’interpretazione giunge al termine, l’analizzante sente che è inutile analizzare all’infinito i sogni, gli atti mancati, i sintomi, etc. Le formazioni dell’inconscio non si arrestano mai, ma è venuto meno il desiderio di dar loro un senso. Oggi sono ancora legata a Pommier, gli sono riconoscente ma non mi sento in debito. Nonostante mi sia allontanata, continuo ad apprezzarlo e a stimarlo, per la sua indipendenza, nel pensiero come nella pratica.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Non so se possiamo davvero parlare di “ottimo analista”, come non possiamo parlare di “ottimo artista”, “ottimo filosofo”, “ottimo antropologo” e via dicendo. Io parlerei piuttosto di stile… Detto questo, la formazione è importante, formazione fondata sul tripode dell’analisi personale, dell’analisi di controllo e della formazione teorica, ci dice Freud. L’importanza delle due prime voci va da sé, anche se trovo che spesso le supervisioni (o analisi di controllo), soprattutto in Italia che sono puntuali e non regolari, si riducano ad un confronto allievo-maestro. E ciò non mi convince molto: il maestro - maître in francese, tradotto spesso in italiano con il termine “padrone” - deve cadere per l’analista, in quanto figura del grande Altro. Credo molto all’importanza della teoria in psicoanalisi. La teoria è un’espressione del desiderio dell’analista, che non è mai “desiderio di guarire” ma “desiderio di saperne un po’ di più sul desiderio inconscio del suo paziente”. La teoria si insinua nella relazione analista-paziente, e contribuisce a mantenere l’asimmetria, evitando all’analista di entrare in una relazione empatica - orizzontale -, con il suo paziente. L’analista deve essere capace d’improvvisare, cioè essere nello stesso tempo “previdente” e “imprevisibile”, come lo indica il termine (“improvvisare” deriva dal latino “improvisus”, che contiene il termine “provisus” participio passato di “provvidere”, “prevedere”). Il ritmo è molto importante in seduta, e l’analista deve avere un certo swing nel modo di dirigere la cura. Ogni seduta ha un ritmo particolare, unico, grazie alle scansioni e ai tagli dell’analista. Vi è ritmo quando l’analista non segue delle cadenze imposte dalle regole della scuola, dal senso, o dalla domanda del paziente, ma quando questi è fortemente implicato (engagé) nel suo desiderio, un desiderio che ha il ritmo dell’“eterno ritorno”, eterno ritorno di cosa? Del suo desiderio di analista! Il concetto nietzschiano dell’eterno ritorno è interpretato a meraviglia da Deleuze, in questo breve passaggio: “Non volere che ciò di cui si vuole nello stesso tempo l’eterno ritorno (eliminare tutti i mezzi voleri, tutto ciò che non si può che volere dicendosi ‘una volta, una volta sola’)” (Deux régimes des fous, la traduzione dal francese è la mia). Il desiderio dell’analista “funziona” quando l’analista desidera che questo ritorni eternamente, senza mezzi termini. L’eterno ritorno del desiderio dell’analista è possibile? Credo proprio di sì, quando la sua direzione della cura non dipende dalla dottrina, ma diventa una questione di stile.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Le tante scuole non sono di certo un problema. Mi ricordo che quando cominciai a cercare una associazione psicoanalitica a cui affiliarmi, tanti anni fa a Parigi, il mio analista mi disse: “Aspetti a entrare in una scuola. Faccia prima un po’ di turismo psicoanalitico”. Ho seguito il suo consiglio. Sono andata ad ascoltare seminari e conferenze dappertutto prima di scegliere la mia associazione. E devo ammettere comunque, di esserle abbastanza “infedele”: da anni sono membro di più associazioni europee (Espace analytique, Fondation européenne pour la psychanalyse, Espace analytrique de Belgique, Alipsi di Milano). Le associazioni psicoanalitiche non sono delle parrocchie, e credo sia stimolante ascoltare qualcuno che non la pensa come noi. C’è sempre da imparare: si possono consolidare le proprie posizioni o addirittura cambiarle. Quindi, ben vengano le differenti scuole! Ovviamente questo discorso vale anche per le scuole di formazione, che come lei sa non esistono in Francia. Nulla vieta a qualcuno che è iscritto in una scuola di interessarsi anche ad altre. E le divergenze sono sempre feconde, anche all’interno dello stesso gruppo. Un giorno facevo lezione all’IRPA di Milano e un allievo mi dice: “Quello che lei ci sta dicendo, dottoressa, è esattamente il contrario di quello che ci ha detto il dottor X!” “Ma questo è meraviglioso - gli rispondo -! Questa è la prova che la psicoanalisi non è una religione fatta di dogmi, e che ognuno può farsi un’opinione in modo indipendente, grazie ai molti punti di vista degli analisti che insegnano”.

Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?

Sono infedele alle associazioni psicoanalitiche e lo sono anche ai maestri! I miei maestri sono stati tanti: sicuramente Lacan e Freud, ma anche Spinoza, Marx, Deleuze, Foucault e Basaglia. E fra i contemporanei Gérard Pommier, Catherine Millot, Guy Dana, Bernard Toboul, Gian Paolo Roffi e Massimo Recalcati. Comunque preferisco parlare di influenze piuttosto che di maestri in senso proprio. Lacan è stato il mio primo incontro con il pensiero psicoanalitico. Lacan è venuto prima di Freud, e ha condizionato e occupato gran parte della mia vita: ancora oggi mi scervello per cercare di capirlo. Non smetto mai di leggere i suoi scritti e seminari, e mi interrogo sulla pertinenza di certi suoi enunciati. Quello che mi convince in lui non è solo la sua forza innovatrice e clinicamente efficace, ma anche la sua posizione analitica, una posizione che è allo stesso tempo rigorosa, ironica e popolare: mai come con lui, la psicoanalisi ha brillato nel mondo della cultura internazionale.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

Non conosco i lavori di Hillman, quindi preferisco non pronunciarmi.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Se pensiamo alla chiusura di una seduta, è l’analista che decide, assolutamente: come ho già detto la relazione tra l’analista e l’analizzante è asimmetrica. Ogni analista conosce il suo potere di suggestione, ed è per questo che non ne abusa. La suggestione implica una distanza tra il terapeuta e il paziente. Quando questa distanza si attenua, usciamo dalla suggestione, ma anche dalla psicoanalisi. Nelle terapie relazionali, basate sulla simmetria degli affetti, è l’empatia che “agisce”. Nella psicoanalisi invece, è il taglio della seduta. Taglio che vuol dire anche ritmo. Per quanto riguarda invece la fine dell’analisi, direi che la decisione è presa in comune accordo tra l’analista e l’analizzante (salvo per l’interruzione, dove è solo il paziente a decidere). L’analisi finisce, l’ho già detto, quando cade il grande Altro, quando il soggetto può privarsi del suo sostegno, perché capisce che questo sostegno non era che finzione, finzione che gli è servita per potersene liberare. L’Altro non lo soccorre più, ma non è più neanche la causa dei suoi mali, il sintomo è trasformato - non è più ragione di blocco o sofferenza -, e la frattura soggettiva completamente assunta.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Certe isterie in cui il ritorno del rimosso si presenta sotto la forma del delirio, che incontro all’ospedale psichiatrico dove lavoro. Problematico è anche il fatto che questi soggetti isterici sono spesso presi per degli schizofrenici. E poi considero particolarmente gravi anche certe dipendenze amorose, tipicamente isteriche, che possono diventare estremamente distruttive. Ma anche certe forme di procrastinazione o di inibizione, che ritroviamo nelle nevrosi ossessive e che si avvicinano agli stati melanconici gravi, mi sembrano particolarmente invalidanti. Insomma, non dico certo una novità, ma le nevrosi sono tutte difficili! La loro stabilizzazione sintomatica è apparente, quindi ingannevole. In generale, penso che le nevrosi siano più complicate delle psicosi. Tutto dipende dal contenuto del delirio: se questo non contribuisce a separare il soggetto dal mondo non ci sono problemi! I soggetti psicotici, e in particolare gli schizofrenici, quando non sono cronicizzati dall’istituzione o dalla società, possono trovare dei modi esistenziali affermativi e appaganti.

Curano di più le parole o i silenzi?

Le parole, sicuramente… ma quelle dell’analizzante! La parola e il silenzio dell’analista hanno solo una funzione di appoggio, quindi il loro peso varia, dipende dalle situazioni. I silenzi dell’analizzante possono essere una forma di difesa, quindi non bisogna troppo incoraggiarli. Il silenzio può invece diventare importante quando il soggetto è preso nei meandri del suo immaginario scatenato, o quando è sotto l’impresa di un attacco maniaco.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Diciamo che uno degli scopi dell’analisi è proprio quella di liberarsi del fantasma del parricidio. Uccidere il padre non serve a niente, il nevrotico lo sa bene: una volta ucciso il padre - a colpi di seduzione per l’isterico/a e a colpi di sfida per l’ossessivo/a - questi rinasce attraverso le sue ceneri: la colpa dell’ossessivo/a e il sostegno del morto dell’isterico/a lo dimostrano. Se un analizzante vuole uccidere l’analista (messo da lui in posizione paterna) non c’è niente di male, è una fase piuttosto comune dell’analisi. Ma alla fine, non è l’analista che deve essere oltrepassato, ma il fantasma del parricidio. Il desiderio del soggetto non ha più bisogno dell’Edipo alla fine dell’analisi.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Le resistenze si accettano, non si combattono. La resistenza è una forma di desiderio: l’io, ci insegna Freud, è sempre una pulsione! In altri termini, il desiderio, durante i suoi percorsi indisciplinati, si esprime anche attraverso la resistenza. Il sintomo è un esempio. Sintomo e resistenza si danno sempre la mano. Ma l’analista non può sradicare un sintomo, come non può far crollare una resistenza attaccandola direttamente. Invece la resistenza può essere contornata, dislocata, rinviata. È un’esperienza che sto vivendo in questo momento con alcuni miei pazienti. L’estate è finita, e si ricomincia, con l’analisi e con la vita “dura”. E paradossalmente, i pazienti decidono che è il momento di finire l’analisi: non hanno tempo, soldi o hanno troppe preoccupazioni. Non dico che ogni volta che un soggetto decida di interrompere l’analisi sia per forza una resistenza, ma in molti casi si intuiscono gli stratagemmi del desiderio, che cerca di rifugiarsi nella sua struttura iniziale, nello stesso tempo difensiva e sintomatica. Cosa fare in questi casi? Più che riportare il paziente alla ragione - un’analista non può pensare di essere più potente del sintomo - mi sembra importante cercare di attirare il suo desiderio verso altre direzioni, cercando di stimolarlo, a partire dalla parola. La parola è la nostra unica “arma”. Ogni tanto si riesce a rilanciare il desiderio, ogni tanto no. “Non vi è che una sola resistenza, la resistenza dell’analista” dice Lacan (L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi). Lacan sostiene, a ragione, che il problema sorge quando è l’analista a difendersi: le nozioni di “controtransfert” e di “identificazione proiettiva” possono essere pensate come delle difese per l’analista: “Il paziente attacca i legami transferenziali, il paziente è interpretativo, proiettivo, etc”. Ma il soggetto non deve per forza adattarsi alla cura, docilmente, passivamente. La psicoanalisi ama i soggetti ribelli, come diceva Basaglia, i pazienti che non si lasciano soggiogare, inclinare dall’analista messo in posizione di maestro. Schiacciare la resistenza del soggetto invece di accoglierla, vuol dire schiacciarne il desiderio.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Come ho detto prima, il controtrasfert è una modalità della resistenza dell’analista. Lacan lo spiega bene nel Seminario VIII. Lacan pensa soprattutto agli analisti inglesi, Klein, Winnicott & company, che propongono delle diagnosi basate sul “provato”, sul “vissuto” (ressenti) dell’analista: “Il paziente mi attacca, interpreta, proietta, resiste… quindi è psicotico!” Mi perdoni, caricaturo un po’, ma ho sentito molte volte queste frasi facendo delle supervisioni. A volte i termini di “transfert” e di “controtransfert” sono presi in un altro senso: il transfert è l’attitudine positiva dell’analizzante nei confronti dell’analista (amore), e il contro transfert, l’attitudine negativa (odio). Ma l’amore e l’odio, che per Freud sono delle pulsioni (Pulsioni e loro destini, 1915), possono ribaltarsi tra loro: un paziente legato al suo analista da una passione amorosa, può facilmente odiarlo, e viceversa. Insomma, l’analista ha a che fare con questi stati pulsionali accesi ed eccessivi: che il paziente ami o odi è sempre complicato! L’analisi del transfert e del controtransfert non ha molto senso per un analista lacaniano, che invece farà attenzione alle sue proprie resistenze nei confronti del suo paziente.

Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Non credo che ci siano delle buone e delle cattive interpretazioni: dei sogni, come di ogni altra formazione dell’inconscio. L’analisi è “a-morale”, cioè al di là del bene e del male, come direbbe Nietzsche. All’interno della cura niente è buono o cattivo, giusto o sbagliato. Ci sono solo delle interpretazioni che hanno degli effetti e altre no, questo è il punto. Quello che conta è invece il ben dire, cioè una forma d’espressione della parola non focalizzata sul senso. Il ben dire è una “gaia scienza”, dice Lacan, un “gay sçavoir” (referenza a Nietzsche in Televisione: Lacan utilizza l’ortografia del francese antico). Questa “gaia scienza” data da una parola oramai liberata dagli obblighi della coerenza e della logica, si oppone allo stato di tristezza: è un sapere che non comprende, non interpreta, non gode della decifrazione, ma semplicemente della sua espressione.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Non saprei dirle. In ogni caso, posso garantirle che lavorare con l’inconscio, mio o degli altri, non è una fatica ma… una gioia! La mia analisi è stata attraversata dall’entusiasmo dall’inizio alla fine, e il mio mestiere è una gioia perché è fatto di imprevisti e sorprese, che possono arrivare a ogni istante. Niente è più svariato della ripetizione! Eterno ritorno, come dicono Nietzsche e Deleuze, che è la forza del vero desiderio.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

L’analisi non è né breve né lunga: è una questione soggettiva, singolare, insomma, dipende. Perché il tempo è una nozione soggettiva, Bergson ce lo insegna. La psicoanalisi non si piega al sistema capitalistico, che ci impone di ottenere il massimo spendendo il minimo. Ma in questo caso, non ci saranno soprese: spendendo il minimo si ottiene spesso il minimo. Detto questo bisogna sfatare il luogo comune delle analisi interminabili. Ci sono delle analisi, andate a buon fine, che durano qualche anno. Come per il tempo delle sedute, la durata di un’analisi è imprevisibile.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Non mi piace. Il termine “cammino” mi fa pensare a un pellegrinaggio cattolico, e “libertà” è un termine troppo astratto e ipotetico. E poi, mi dica, ma chi, in fondo, vuole essere libero? Basta leggere La Boétie e il nostro Machiavelli... La libertà è più un ideale che un desiderio. E l’analisi, in quanto esperienza che attraversa il corpo e la parola è invece un incontro con il desiderio, un faccia a faccia con i suoi paradossi, e niente di più.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

Non lo so. Se l’analisi di uno psicoanalista è stata condotta fino alla fine, e se questi è capace di improvvisare nella sua pratica, perché dovrebbero esserci rischi? Improvvisare non vuol dire prendere rischi, secondo il luogo comune. Invece, un buon improvvisatore sa utilizzare a buon fine i suoi errori, proprio come un buon analista.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Ovviamente no. Durante l’attraversamento del fantasma e il superamento delle identificazioni, si incontrano delle famiglie intere, delle comitive numerosissime, gruppi sociali, razze, di tutto! Ma non si incontrano solo umani, ma anche animali, piante e ogni genere di oggetto capace di stimolare l’immaginario dell’analizzante (e perché no, anche dell’analista!). Vi ricordate l’oggetto-soperta dei surrealisti, la trouvaille, di cui parla Breton ne L’amour fou? L’inconscio è una poltiglia incredibile! E come si dice, tutto fa brodo! A condizione di essere guidati dalla famosa “etica del ben dire” di cui abbiamo già parlato.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

Rigorosamente sì. La sessualità è la sfera di interrogazione e di azione dell’analisi. Il senso è largo ovviamente: quando Freud si riferisce alla sessualità, non intende solo il sesso, il coito, la pratica sessuale, le questioni identitarie e politiche legate per l’appunto alla sessualità. La sessualità nell’accezione freudiana è legata all’ “inconscio”, all’ “altra scena”, o ancora, all’ “altro discorso”. La sessualità indica l’enigma della relazione tra il corpo e il linguaggio: la psicoanalisi si interessa all’esplorazione di questo enigma, che dirige e determina la nostra vita.