Debito pubblico e Bce: L'ottimismo realista

Carlo Torino

L’ottimismo dei Millegiorni, suffragato da una solida posizione di bilancio, incontra la dottrina del realismo invocata da Calenda.

È essenziale – come ha esortato a fare il ministro Calenda – che il dibattito pubblico, in materia economica, recuperi quello svanito senso di rigore e di realismo dissipatosi tra le fitte nebbie preelettorali. Raccogliamo dunque il voto del ministro partendo da un’analisi degli impatti potenziali sulla sostenibilità del debito pubblico di un eventuale rialzo dei tassi. Eventualità da taluni temuta non meno del giorno del giudizio. A tal riguardo occorre in primo luogo far notare come il profilo delle scadenze del nostro debito pubblico (132 per cento in rapporto al Pil) sia profondamente mutato negli ultimi quattro anni a seguito di un’avveduta politica ­– implementata dagli ultimi due esecutivi (Renzi-Gentiloni) – essenzialmente improntata ad estenderlo nel tempo, traendo giovamento da tassi di mercato estremamente compressi. La politica monetaria ultra-espansiva delle Bce ha costituito, è innegabile, la precondizione perché ciò potesse accadere. Ad oggi infatti solo il dieci per cento circa (in rapporto al Pil) del nostro debito scadrà entro la fine dell’anno in corso; e un valore intorno al 15 per cento (230 milioni all’incirca) entro la fine del 2018.

E con ciò? Rimane il problema di un debito inconcepibilmente elevato. È vero: elevato, non v’è dubbio: ma sostenibile. Dove con il concetto di sostenibilità si esprime essenzialmente la probabilità del tutto esigua che si verifichi una crisi fiscale indotta da un repentino rialzo nei tassi (superiore alle attese). Nello specifico: un rialzo nel costo del debito tale da non essere controbilanciato da un incremento negli indicatori di crescita economica. Certo: in quanto il peso del debito (il celebre «numeratore»), è sempre commisurato al «denominatore»: e cioè il Pil. Una crescita sostenuta di quest’ultimo contribuisce alla riduzione del rapporto, inducendone una maggiore sostenibilità.

Ma non basta. Un recente contributo, a cura di Olivier Blanchard, stima l’impatto in termini di correzione fiscale (aggiustamento dell’avanzo primario) necessaria a mantenere stabile il rapporto del debito; e lo fa presagendo vari (e francamente piuttosto ambiziosi) livelli nei tassi d’interesse. Valga l’esempio limite a titolo esemplificativo: un livello di rendimento nominale del decennale italiano al 5% implicherebbe uno sforzo di correzione nel saldo primario (tradotto: incrementi di imposte e tagli alla spesa) di un valore di poco inferiore al 2 per cento. Cifra che non ha in fondo ragione di destare tomenti e inquietudini. Ma ricordiamolo: un livello del decennale al 5% (oggi siamo al 2.1%) costituirebbe uno scenario di eccezionale gravità, quasi di radicale rivolgimento (non a caso fu quello il livello raggiunto durante lo zenit della crisi, nel 2011).

In definitiva, vi sono dunque buone ragioni per indulgere in provvidenze e liberalità fiscali? Affatto: è evidente che queste considerazioni possiedono un loro valore squisitamente contingente. E il prossimo esecutivo dovrà mostrarsi ­– almeno quanto gli ultimi due che lo hanno preceduto – risoluto nella stabilizzazione e riduzione del rapporto. Che è poi ciò che in realtà conta, e che la «inimica vis» dei mercati osserva con conturbante attenzione. Ma si badi bene: in alcun modo si possono accettare pregiudiziali sulla crescita. È fondamentale disporre piani che stimolino investimenti e consumi; e occorre farlo nel quadro delle risorse «realmente» disponibili: non in quello predefinito, e francamente assurdo, di una matrice che obbliga ad aggiustamenti strutturali.

Su un punto occorre essere chiari: la polemica inerente il debito pubblico Italiano non è in alcun modo connessa alla sua sostenibilità. I frequenti rilievi che ci vengono opposti dalla Commissione europea sono relativi agli obblighi prescritti dal Patto di stabilità e crescita – poi ribaditi nel Fiscal compact ­–, che ci obbligano a continue manovre sui saldi.

La posizione ciclica dell’Italia – come dimostra un immemoriale divario rispetto al Pil potenziale (il livello di ricchezza che indurrebbe la piena occupazione) ­– ci fa ritenere che vi siano nel medio termine buone possibilità di confermare i recenti dati positivi sulla crescita.

È dunque senza concessioni a facili professioni di ottimismo – ma rifiutando egualmente le posizioni inammissibili di chi vorrebbe cantare le esequie del Paese – che possiamo dire che qualcosa è stato fatto. E che a qualcuno nei governi Renzi e Gentiloni, non ultimo il ministro Calenda, qualche merito vada pur riconosciuto.