Il pessimista retroattivo

Giuseppe De Filippi

In mancanza del bersaglio grosso (il Cav. prima, Renzi poi) oggi si gufeggia volentieri guardando al passato

Indignazione generale perché Matteo Renzi è tornato a usare la parola “gufi” e nell’accezione che gli è più cara. “Eccolo lì, ci ricasca”. Era l’esordio di tutte le risposte indignate al commento renziano, notato anche perché era arrivato nel vuoto delle notizie estive, e dopo giorni di astinenza dichiaratoria, a chiosare con soddisfazione il dato ulteriormente migliorato della crescita economica. A seguire sono rapidamente arrivate le risposte, secondo le varie modulazioni, di destra o di sinistra o del nientismo a 5 stelle, con un punto in comune (che suona però come un ipergufismo o una terribile confessione da menagramo): evocare i gufi a Renzi porta sfortuna. C’era chi, come Renato Brunetta, indicava la sconfitta referendaria come un effetto degli attacchi ai gufi e chi invitava a diffidare di una crescita ancora stentata e comunque inferiore alla mitica media europea. E chi semplicemente mostrava il nervo teso e dava un po’ di matto di fronte a quello che, osservato con distacco, è un banale epiteto della lotta politica. L’ex premier restava sulle sue posizioni (come gli è abituale) ma erano i gufi questa volta a giocare una mano più ardita del solito, rivendicando proprio l’essenza del gufismo, cioè la capacità di influenzare gli eventi verso un esito negativo. “Gufo laziale cambia canale”, scrivevano i romanisti negli striscioni all’Olimpico durante le trasmissioni delle partite di coppa con la Roma in campo, e certamente c’è, anche se la rima è meno immediata, anche qualche esortazione inversa e simmetrica da laziali a romanisti. A spiegare che il gufo non è semplicemente un pessimista, ma è qualcuno che ci mette del suo, se non altro uno sforzo mentale, un tentativo di emanare onde negative, per fare in modo che le cose vadano storte. Non crederemo mai alla possibilità di esercitare queste magie, seppur a rovescio, ma certamente il gufo è cosa leggermente diversa dal semplice pessimista. Tuttavia non si sa quale dei due sia una compagnia più sgradevole. Il gufo (sempre salvando l’innocente animale, da cui è solo preso il nome), proprio per il disperato impegno che mette nella sua velleità di mago negativo diventa quasi simpatico, come Topolino che fa l’apprendista stregone. Il pessimista fa più paura, perché non mette sé stesso in ballo ma le forze naturali, inesorabili, del destino. Fa della concezione tragica della vita, che è di tutti, una specie di caricatura noir. Si atteggia, direbbero a Roma, quasi per difendersi dal rischio dell’illusione.

 

L'ibrido con la figura del gufo, qualcuno che ci mette del suo, anche solo uno sforzo mentale, per fare in modo che le cose vadano storte

Il guaio (parola di eccezionale pertinenza in questo contesto) è che negli ultimi anni le due figure, del gufo e del pessimista, si sono un po’ ibridate. Il tradizionale pessimista, che aveva anche il suo fascino, da intellettuale disilluso, ha preso a usare qualcuno degli strumenti del più volgare collega. Ne è nato un pessimista attivo, che mentre sottintende la negatività della situazione generale si dà da fare perché i tentativi di miglioramento non vadano a buon fine. Ha una sua credibilità sulla scena pubblica, più dei gufi veri e propri (solitamente influenzati dal colore politico dei governi e quindi gufi pronti a trasformarsi in entusiasti certificatori di successi di fronte a un governo amico). Si appoggia strumentalmente a numeri e dati, indica tendenze di fondo, allude a vizi insanabili. E’ un determinista, ama ovviamente il lungo termine (se non altro perché keynesianamente saremo tutti morti) ma flirta anche con gli scivoloni che possono arrivare nel breve termine, quei bei trimestri in cui qualche indice rallenta, quelle improvvise folate di disoccupazione in rialzo (e quella giovanile poi...), quei picchi negli sbarchi o quegli sgarbi estemporanei da parte di qualche paese un tempo amico in Europa. E comunque dileggia tutto il resto come effimero tentativo di raddrizzare il legno storto. Ma non accetterà mai la definizione di pessimista e sempre, usurpando, darà di sé quella di realista.

 

Dileggia tutto il resto come effimero tentativo di raddrizzare il legno storto. Ma si definirà sempre solo come un realista

Due affermazioni del pessimismo nel mondo libero hanno lasciato il segno in questi anni: la scelta referendaria per la Brexit e la vittoria di Donald Trump. Sono stati gli unici casi di grande rilievo, assieme al No nel referendum istituzionale italiano (che però ha peculiarità specifiche), in cui la narrazione (ora si può dire) vincente è stata quella della paura, delle previsioni di peggioramento per le condizioni generali, delle difese da approntare contro un futuro che certamente avrebbe portato solo sviluppi negativi. Una novità storica quel doppio voto nel giro di pochi mesi, cui non sono seguite simili affermazioni in altri grandi paesi democratici (in Germania va il gut und gerne leben, lo stare volentieri e felicemente bene nel proprio paese, come slogan elettorale e in Europa e in altre zone del mondo industrializzato gli spacciatori di paura non hanno realizzato risultati di rilievo). Tuttavia mettendo il racconto fosco al posto del sol dell’avvenire o semplicemente di una normale fattività si è vinto in paesi di grande e consolidata tradizione ottimistica come gli Stati Uniti o dalla tendenza realista come il Regno Unito, il paese che è riuscito a passare dal Winston Churchill reduce dalla vittoria in guerra al più modesto ma concretamente utile Clement Attlee. Si è vinto e si è festeggiato (e c’è subito qualcosa di sghembo nei festeggiamenti dei pessimisti) e poi non si è più saputo che fare. Il pessimismo ingabbia i suoi stessi propugnatori, in speciali circostanze storiche (per gli Stati Uniti vale anche la cosiddetta fatica del ruolo di garanti della stabilità mondiale) può anche vendersi bene sul mercato elettorale, ma poi lascia chi lo ha cavalcato senza un piano, senza un progetto politico. La Brexit è lì impantanata, nessuno sa veramente che farne e come muovere anche un passo nella direzione indicata dall’arrembante voto referendario, mentre Londra comincia a perdere pezzi pregiati del mondo finanziario a vantaggio di altre città europee. Ora si blatera di regimi speciali, di patti doganali, di diritti dei lavoratori provenienti dalla Ue e residenti nel Regno Unito. Tutto molto complicato, tutta fatica inutile per tentare di avere un abbozzo di ciò che comodamente c’era prima. Il flirt col pessimismo ha fatto sfogare un po’ di piccola rabbia repressa, perfino qualche nervosismo personale, un assaggio di negatività di gruppo, roba che magari all’inizio si riteneva quasi innocua, appunto uno sfogo, e invece è diventata un terribile impiccio da risolvere in anni e anni di politica a venire per cui si richiederà un surplus di ottimismo o perlomeno di praticità. Trump palesemente non sa dove mettere le mani, si contraddice, manca di una strategia. Il grande asserito realizzatore delle promesse elettorali non sa come tradurre in pratica la base dei suoi impegni durante la campagna presidenziale. Con quella paura spacciata a ogni incontro pubblico, non può costruire niente dopo essere entrato alla Casa Bianca grazie alla negazione della stessa ragion d’essere del suo paese. E continua ad aggiungere paura a paura, provocazioni infantili (ma basate sull’arma nucleare) a gaffe storiche abissali, come quella sui proiettili usati dal generale John Pershing durante la repressione delle insurrezioni islamiste nelle Filippine. Non può uscire dalla spirale del pessimismo, perché lui ne è diventato il simbolo e l’interprete, e ha nome, cognome e indirizzo. Mentre Brexit è figlia di nessuno, dopo l’uscita di scena dei suoi primi propugnatori e la sostanziale sparizione del loro stesso partito e perfino le dimissioni dell’incauto David Cameron, avverso all’uscita dall’Ue ma responsabile dell’indizione del referendum. Quattro passi nel pessimismo e la politica britannica è disfatta. Ma lì c’era un obiettivo chiaro, Downing Street e la maggioranza parlamentare: il pessimismo militante ha potuto colpire dove faceva più male e dove otteneva i maggiori risultati.

 

Negli Stati Uniti e a Londra si è vinto e si è festeggiato e poi non si è più saputo che fare. Il pessimismo ingabbia i suoi stessi propugnatori

In Italia il pessimista in servizio permanente è invece un po’ in difficoltà. Ha avuto momenti esaltanti, con governi dai contorni ben definiti. Addirittura governi guidati da Silvio Berlusconi, bersaglio ideale del pessimismo organizzato, facilmente esposto con la sua dichiarata fattività, e poi talmente provato dall’esperienza da restituire la pariglia attraverso le sue prime linee trasformate, nell’urlo da talk-show, in bombardieri di negatività. E poi Romano Prodi. E certamente Matteo Renzi. Chi governa senza infingimenti, senza nascondersi dietro ai “me l’hanno chiesto, non ero io a volerlo”, viene messo sotto attacco dal pessimismo nazionale. Ma ora, appunto, il bersaglio grosso non c’è e si gufeggia in modo retroattivo. C’è più ripresa del previsto? Non provate a dire che è merito del governo precedente e delle sue riforme. il pessimista è pronto perfino all’abiura e quindi ad attaccarsi a influssi positivi sull’economia nazionale purché si tratti di roba esogena. Se il bene arriva dall’estero, dai mercati mondiali che stanno tirando e verso di noi cade qualche briciola, si può anche accettare che ogni tanto, nel breve periodo, s’intende, possa capitare qualcosa di positivo (che poi comunque si rovescerà in altrettanti sviluppi negativi). Però non c’è proprio gusto, almeno non quanto ce n’era con Renzi a Palazzi Chigi. E poi ci sono quei numeri un po’ complicati da smontare. Il prodotto interno che aumenta più del previsto. tra l’altro mentre l’inflazione resta quasi a zero, quindi senza alcun effetto nominale sulle grandezze calcolate. Con il settore manifatturiero a dare il maggiore contributo, e l’evidenza indica che sono gli incentivi a favore degli investimenti di industria 4.0 ad aver trainato (a voler essere antirenziani potrebbero esaltarne la paternità di Carlo Calenda, ma al pessimista militante potete chiedere tante cose ma certamente non di essere machiavellico). E poi, per stare su una delle questioni sulle quali più si esercita il pessimismo apocalittico, ci sono gli sbarchi che, mannaggia, frenano, con un apprezzabile effetto di più azioni, dal controllo delle attività delle Ong all’abbozzo di un accordo con i vari poteri libici per tenere a freno gli scafisti, fino al coinvolgimento di altri governi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana nella gestione del flussi. Il pessimista vacilla, a colpirlo è proprio la strategia spicciola, la micidiale rivelazione che il metodo del contenimento, quasi quotidiano, capillare, può funzionare. Con cosa prendersela? Non c’è il buonismo del tutti dentro ma neppure il blocco navale e la chiusura dei porti. Si può provare con la sicurezza. Facile impressionare con i delitti (ce ne sono sempre comunque purtroppo tanti, anche se numericamente in calo), e il terrorismo islamista continua a colpire, e vai a spiegare che lo fa in modo sempre meno organizzato. Il pessimista sguazza tra le dichiarazioni roboanti, contro le quali può sparare i suoi argomenti migliori e alle quali può sempre opporre la mancanza di effetti visibili, ma fatica a contrastare il lavoro di ogni giorno, con cui a piccoli passi si ottengono risultati. E’ la sua kriptonite, è il linfocita che lo combatte, è l’antidoto che lo depotenzia.

 

C'è più ripresa del previsto? Non provate a dire che è merito del governo precedente. E mannaggia, frenano anche gli sbarchi

A giorni tornerà la bava alla bocca dei talk-show. La tregua televisiva estiva (copyright Cerasa) ha imposto una frenata all’urlo da dibattito e forse proprio per questo si sono potute condurre alcune politiche concretamente fattive e non gladiatorie. Vedremo cosa porterà la ripresa delle attività pubbliche a maggiore intensità, con anche i primi passi verso le elezioni. Verso la prima campagna elettorale davvero post crisi. Eppure il pessimismo è sembrato un’arma spuntata anche riguardo alla gigantesca recessione cominciata nel 2008. Neanche quell’evento storico ha funzionato da rinnovato terremoto di Lisbona per dare lo spunto a un racconto nero dell’economia di mercato nei paesi più sviluppati. E a sorpresa la combinazione di livelli inediti e congiunti di calo produttivo, perdita di lavoro e crollo di valori patrimoniali non ha lasciato strascichi eccessivi di ruvidezze nei rapporti tra i paesi e nei paesi (l’eccezione trumpiana la abbiamo già affrontata e ha comunque radici ben fuori dagli effetti della crisi). La storia da raccontare è che da tutta quella crisi se ne è usciti molto più facilmente di quanto si pensasse e, come dire, restando amici. Mentre lo spirito imprenditoriale non è stato scalfito. Schivati i rischi fatali, placato il mundus furiosus, e lasciate al cinema le guerre stellari, non c’è stato neppure bisogno di cercare l’uscita di sicurezza. Speranza e paura ci sono entrambe e convivono come sempre, al pari di bugie e verità. Ci perdonerà Giulio Tremonti per il collage depotenziante di suoi titoli ma era un modo per citarlo come eccezionale caso di ottimista/pessimista ma non gufo. Gli altri invece, pessimisti infastiditi dai fatti che non vanno nella brutta direzione attesa, restano attaccati a twitter o all’Ansa. Ha ridetto gufi? Ha ridetto gufi? Ok, si può andare avanti per un altro po’.

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