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Il blues di Olaf Scholz con un sì e i suoi cento no

Un anno fa il cancelliere tedesco prendeva il potere, poi Putin ha fatto crollare ogni illusione. Il bilancio di un governo di piccole svolte e grandi delusioni

Paola Peduzzi e Micol Flammini

"Ich habe Ja gesagt”, ho detto di sì, twittò un anno fa Olaf Scholz, accettando l’incarico di diventare il cancelliere tedesco e postando una foto con un mazzo enorme di fiori tra le mani. Aveva la mascherina, Scholz, ce l’avevano tutti in quell’aula parlamentare che aveva sancito il matrimonio tra il cancelliere eletto e le istituzioni e i suoi compagni della coalizione rosso-giallo-verde, il semaforo del dopo Merkel, il nuovo inizio. Ci sembra passato un secolo da quel “sì” e da quella promessa, forse anche Scholz ha la stessa percezione a giudicare dalle occhiaie e da quanto si sono fatti rigidi i suoi lineamenti in questi dodici mesi che hanno stravolto lui, la Germania, l’Europa, il mondo. Nei giorni scorsi il cancelliere tedesco ha pubblicato un saggio su Foreign Affairs che è un po’ il bilancio del suo primo anno di mandato, un po’ il manifesto del suo pensiero, un po’ una lettera per giustificarsi. Perché se è vero che l’invasione di Vladimir Putin in Ucraina ha confuso e sconvolto tutti – l’illusione nei confronti del presidente russo è crollata così, di schianto – la reazione di Scholz è stata la più discussa e controversa: coraggiosa nello stanziare subito molti fondi per riformare l’esercito e attrezzarsi a garantire la sicurezza anche dell’Ucraina, tentennante sul “tubo della discordia”, il Nord Stream 2 che collega la fornitura di gas dalla Russia alla Germania, ostile nella definizione di una politica energetica comune europea ed egoistissima nel salvare, grazie ad ampi margini di bilancio, l’economia tedesca e non quella europea. Nel suo saggio Scholz spiega e motiva molte cose, partendo dalla “Zeitenwende”, il punto di svolta globale: “La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina – scrive il cancelliere – ha messo fine a un’epoca” e ha dato il via a un mondo multipolare dove “diversi paesi e modelli di governo competono tra di loro per avere potere e influenza”.

 

E’ una svolta che riguarda l’Ucraina e la sicurezza europea, una svolta perché l’Unione europea rimanga “un attore indipendente”. Al centro c’è la Germania naturalmente che è “garante della sicurezza proprio come si aspettano gli alleati”, scrive Scholz (gli alleati si aspettavano di più, in realtà), “una costruttrice di ponti all’interno dell’Ue” e “una sostenitrice di soluzioni multilaterali”: il cancelliere rivendica una centralità che il corso degli eventi gli ha tolto. Perché? Proprio per quel che spiega poco dopo Scholz quando dice che il rapporto con la Russia e con Putin che è stato costruito dopo la fine della Guerra fredda era fondato su un’idea condivisa, quella della pax economica, ma anche se la guerra ha stracciato ogni convinzione, il cancelliere non fa nemmeno un pochino di autocritica, difende le scelte fatte, dice che appena diventato cancelliere ha chiesto se c’era un piano per disaccoppiarsi dal gas russo – nel dicembre dello scorso anno, le truppe di Putin erano già assiepate vicino al confine ucraino – e gli hanno detto di no. Così è andato tutto di fretta, di emergenza in emergenza, e ancora adesso l’Ue è inchiodata alla paura della Germania e al suo doversi attrezzare. Con qualche preoccupazione in più perché non è certo che Scholz abbia capito che il punto di svolta riguarda tutti, non solo Putin: alla fine del suo intervento, il cancelliere dice che l’isolamento della Cina è una sciocchezza, bisogna cooperare e contenere, che è quello che s’è fatto con la Russia, col risultato che sappiamo. Chissà allora quali sono le lezioni che Scholz ha imparato in questo primo suo anno di potere e tormento: siamo andate a decifrarle.

 

Il sostegno all’Ucraina. Prima che partisse la scellerata invasione, all’aeroporto di Kyiv stazionavano le telecamere per riprendere il materiale bellico che gli alleati mandavano all’Ucraina. Mostrarlo serviva a far capire ai russi che gli ucraini  stavano accumulando forza per difendersi e, mentre gli americani mandavano missili anticarro Javelin in grande quantità, i tedeschi decisero di inviare cinquemila elmetti. Giusto per far vedere che all’Ucraina ci stavano pensando ma non volevano indispettire troppo la Russia. Il sindaco di Kyiv rispose: forse è uno scherzo. A guerra iniziata Scholz non poteva più permettersi di titubare come un Viktor Orbán qualunque, ma se guardava al suo arsenale la situazione non era rassicurante. L’esercito tedesco, la Bundeswehr, veniva da anni di tagli e qualcuno diceva: ma se diamo le armi agli ucraini, poi se la guerra si espande come facciamo. Il ministero della Difesa aveva allora inventato un sistema creativo per rifornire Kyiv, senza farlo direttamente e lo aveva chiamato: lo scambio ad anelli. Il fine era doppio: dare respiro agli arsenali e, di nuovo, non irritare Putin. La Germania aveva chiesto agli alleati che disponevano di armi sovietiche di fornirle agli ucraini in cambio di materiale più moderno made in Germany. Il  sistema era macchinoso e lento e  una parte della coalizione di Scholz era fortemente contraria a questi tentennamenti. Al ministero degli Esteri, la verde Annalena Baerbock iniziava a mostrare molta irritazione e disse che era il momento del pragmatismo e di inviare armi pesanti all’Ucraina. Per Scholz la parola pragmatismo voleva dire l’opposto, ma passò la linea Baerbock, ben conscia che i tedeschi non potevano opporsi ai piani europei. L’arma tedesca di cui più si iniziò a discutere erano i Gepard, i carri armati con cannoni antiaerei che Berlino aveva negli stock: a oggi ne sono stati mandati trenta, con seimila cariche di munizioni. Complessivamente,  tra i paesi europei la Germania è il primo che contribuisce tra aiuti umanitari, militari e risorse europee. Ma se si va a guardare il livello di sostegno misurato con il pil, allora scende all’undicesimo posto, dietro ai paesi europei più esposti a est, ma prima dell’Italia. 

 

Gli scudi e gli egoismi. Nella sua illusione della pace attraverso il commercio, la Germania è diventata dipendente dal gas della Russia (e dalle esportazioni verso la Cina) e non si è accorta della minaccia di Putin (nonostante la Cecenia nel 1999, l’invasione della Georgia nel 2008 e la prima annessione dell’Ucraina nel 2014). “A Putin non conviene invadere. Gli Stati Uniti sono allarmisti”, dicevano i diplomatici tedeschi a novembre, dicembre e gennaio, quando l’Amministrazione Biden allertava il mondo sulle intenzioni del presidente russo. “A Putin non conviene attaccare Kyiv”, ripetevano gli stessi diplomatici tedeschi una settimana prima dell’invasione. Scholz non ha voluto prendere sul serio i 150 mila soldati russi ammassati alla frontiera con l’Ucraina, ha scoperto di essere vulnerabile ai ricatti energetici di Putin e si è trovato di fronte alla prospettiva dell’arresto totale della sua economia e della sua transizione energetica. Che choc: passare dalla grande potenza economica e politica dell’Ue, senza la quale nulla può essere deciso e che può permettersi gesti (parsimoniosi) di generosità, allo status di paese che ha sbagliato tutti i suoi calcoli. Peggio. Che si è lasciato andare all’azzardo morale energetico con la Russia, come una Grecia che accumulava debiti alle spalle degli altri. I piccoli Baltici e la media Polonia avevano ragione. Scholz no, ma ha cercato di non accettare comunque la realtà. I suoi diplomatici hanno smesso di dire che a Putin non conveniva attaccare l’Ucraina, e hanno iniziato a dire che “a Putin non conviene tagliare il gas”. Il governo Scholz ha fatto il possibile per continuare a ricevere le forniture russe, opponendosi a tutte le sanzioni che avrebbero potuto portare a interruzioni. Le sanzioni sul carbone? Solo dopo agosto, perché prima la Germania deve trovare alternative alla Russia. L’embargo sul petrolio? Solo dopo dicembre, perché altrimenti la regione di Berlino resterebbe senza diesel. Gazprombank? Mai e poi mai sulla lista nera dell’Ue perché i pagamenti devono continuare. Pagamenti in rubli? Sono vietati, ma la Germania ha facilmente convinto la Commissione di Ursula von der Leyen a chiudere un occhio. E Putin ha tagliato il gas lo stesso: con piccole riduzioni in primavera, con la scusa di una turbina in riparazione in Canada poi, e Nord Stream 1 s’è inceppato, per poi saltare per aria con uno dei due tubi del suo gemello Nord Stream 2. 


La richiesta d’aiuto. La Germania ha chiesto aiuto all’Europa e l’Europa è corsa in soccorso. La Commissione ha presentato – e gli stati membri hanno approvato – tutta una serie di misure di solidarietà con la Germania: obiettivi di riduzione della domanda di gas compresi razionamenti obbligatori in caso di necessità; obbligo di riempire gli stoccaggi all’80 per cento prima di novembre; tetto ai ricavi delle energie inframarginali ricopiato su una misura adottata dal governo Scholz; solidarietà obbligatoria sul gas in caso di taglio totale delle forniture russe o penurie da altri fornitori. Alcune di queste misure non convenivano neppure ad alcuni stati. Spagna e Portogallo non hanno necessità di ridurre la domanda perché dipendono dal gas naturale liquefatto e ci sono poche interconnessioni con il resto del continente. L’Italia, che produce metà della sua elettricità con il gas, ci rimette un sacco di soldi con il tetto ai ricavi delle inframarginali. Ma la scelta è stata: aiutiamo la Germania, anche perché se viene giù lei vengono giù tutti – il mercato unico, le catene di approvvigionamento europee, la garanzia dei Bund tedeschi sul debito dell’Ue. Ma alcuni paesi si aspettavano da Scholz un po’ più di coraggio e solidarietà. Mario Draghi ha chiesto un price cap sul gas russo. La risposta è stata no: troppo rischioso perché Putin potrebbe tagliare quel poco che manda ancora nell’Ue. L’Italia con altri 15 paesi ha proposto varie forme di price cap sul gas all’ingrosso. Altri no: troppo alto il pericolo che il gas naturale liquefatto finisca in Asia. Italia e Francia hanno lanciato l’idea di strumenti di debito comune per fornire prestiti agli stati membri per mitigare l’aumento della bolletta. Un altro no: il ministro delle Finanze, Christian Lindner, potrebbe mandare all’aria la coalizione semaforo e nemmeno Scholz è favorevole. Quel che è peggio è che il malato non accetta consigli e vuole curarsi  da solo. Con una certa arroganza i funzionari del governo tedesco pretendono di scrivere le proposte della Commissione sull’energia e bloccano i suggerimenti degli altri paesi. Nel frattempo il governo Scholz ha lanciato il fondo da 100 miliardi per rafforzare la difesa, ma senza tenere conto della dimensione europea. Ha approvato il piano da 200 miliardi per concedere uno sconto in bolletta alle imprese tedesche. E ora si prepara a usare gli aiuti di stato per proteggere la sua industria dall’Inflation Reduction Act americano. Fa come se il mercato unico non esistesse, come se le imprese italiane non potessero fare concorrenza a quelle tedesche, come se l’Europa si sintetizzasse nella Germania.


La tenuta interna. Come è stato questo primo anno dopo “ho detto sì”?, abbiamo chiesto al professor Gero Neugebauer, uno dei più raffinati conoscitori del Partito socialdemocratico tedesco.  “E’ sopravvissuto”, ci ha risposto, “e sopravvivrà fino alla fine della legislatura perché il suo interesse è guidare i socialdemocratici una volta ancora alle elezioni del 2025”: gioca al raddoppio insomma, anche se i sondaggi mostrano una fatica ad arrivare pure alla fine di questo mandato. “Questo è vero”, dice lo studioso, “ma non ha importanza: la questione rilevante è che l’Spd ha seppellito l’ascia di guerra: Scholz non ha problemi irrisolti con i socialdemocratici e questi hanno deciso di mettere da parti polemiche e discussioni”. Una pace a sinistra, che sogno.  E cresce la leadership di Scholz? “Con grande lentezza – dice – Il cancelliere sta imparando che molte questioni non si possono risolvere solo a livello nazionale ma vanno prima discusse con i partner europei: il processo è lento e si sta compiendo a una velocità considerata inferiore alle aspettative. Questo vale anche per la politica estera: il partito ha cominciato a rivedere la propria linea tradizionalmente filo russa solo due mesi fa”. Questa lentezza la sentiamo anche noi lontani migliaia di chilometri da Berlino, ma perché la Germania sembra poco presente a se stessa? “Perché la maggioranza sperava di poter seguire il patto di coalizione ma è invece condizionata dalla guerra e dalla crisi energetica, perché guidare un’alleanza litigiosa è faticoso e perché l’industria tedesca è lenta ad adattarsi al cambiamento”, dice Neugebauer.  La maggioranza terrà? “I liberali vorrebbero imporre una linea diversa ma non hanno i numeri. Scholz tende ad apprezzare il rigorismo del ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, ma non può certo cambiare linea proprio mentre i Verdi stanno tentando di rubare elettori alla Spd. Basta sentirli parlare: oggi la questione sociale è il loro primo obiettivo, tanto nessuno preferirà la Spd ai Verdi per le politiche ambientali”. Scholz va avanti insomma perché “non ci sono alternative”, che è una constatazione anche accettabile per i matrimoni di lunga data, non per il primo anniversario.

 

Olaf Scholz ha cominciato con un gran sì e ci ha rifilato poi tantissimi no. Noi siamo stati ad aspettare e a concedere perché senza la Germania faremmo tutti fatica, perché le grandi unioni stanno in piedi così, con la pazienza e la solidarietà, perché c’è già un nemico enorme alle porte e in casa bisogna stare in pace. Ma siamo in allerta: per altre illusioni pronte all’uso non c’è più tempo, né spazio.


 (hanno collaborato David Carretta da Bruxelles
e Daniel Mosseri da Berlino)