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Cosa vuole la Nato ora che è uscita dal coma

Paola Peduzzi e Micol Flammini

L’Alleanza atlantica non si fa dettare le regole dalla Russia, valuta i nuovi pretendenti e pensa al suo futuro. Ma senza americani e tedeschi funziona male

Dopo aver ammassato soldati e mezzi militari al  confine  con l’Ucraina, pronti per lanciare un attacco da più direzioni, il presidente russo, Vladimir Putin, ha detto che non ha altre alternative: non è la Russia il problema, il problema è la Nato che si è fatta sempre più espansiva. Così, il ministero degli Esteri russo si è messo a lavoro e ha stilato una lista di richieste irrealizzabili dirette alla Nato, talmente irrealizzabili da sembrare fatte per farsi dire di no. Tra queste, Mosca chiedeva la garanzia che l’Ucraina e la Georgia non entreranno mai a far parte dell’Alleanza atlantica. Sono seguite settimane intense, un lavorio diplomatico in cui gli Stati Uniti hanno cercato un punto di incontro, noi europei stavamo a guardare e la Nato, con un moto di orgoglio, di coerenza e di forza ha detto al presidente russo: non sei tu che detti le nostre regole. Lo ha invitato a dialogare, a ridefinire cose importanti come i limiti reciproci per il dispiegamento di missili, ma per il resto gli ha detto con chiarezza che sarà l’Alleanza a stabilire chi può entrare e chi no.

 

Erano anni che sentivamo ripetere che la Nato era in uno stato di morte cerebrale, che era uno strumento obsoleto, una vecchia cianfrusaglia da Guerra fredda. Oggi sono in tanti a dire che, per quanto possa sembrare strano, l’Alleanza atlantica ha trovato proprio nel presidente russo un grandissimo spot. Una Russia che si fa così minacciosa, che si aggira lungo i confini ucraini, cerca scuse che giustifichino un’invasione, mostra i muscoli e fa paura sta facendo un po’ lo stesso effetto che fece la Brexit, motore di una gran voglia di Unione europea. Così la Russia che blatera di riportare Mosca ai confini sovietici sta facendo crescere il desiderio di Nato. Non sono più soltanto paesi come l’Ucraina o la Georgia a chiedere di farne parte, ma anche la Finlandia e la Svezia, dopo anni di neutralità. La Nato sta meglio di qualche anno fa, ma continua ad  avere i suoi problemi. Al suo interno ci sono ventuno dei ventisette stati europei e se i paesi membri fanno fatica a mostrarsi solidali dentro all’Ue, figuriamoci dentro a un’alleanza militare difensiva. Si stenta a capire le ragioni l’uno dell’altro e se mai la Nato dovesse essere chiamata a difendere, per esempio, la Polonia, il timore è che stati lontani e vicini troverebbero scuse per non intervenire. Siamo andate a studiare questa Nato in grande spolvero, con i suoi pretendenti, un grande problema al suo interno e la sfida di ieri che è ancora quella di oggi: la Russia. 

 

I pretendenti. Il principio della finlandizzazione ha guidato i rapporti tra Russia e Nato per anni: vuol dire che la Finlandia non potrà mai entrare nell’Alleanza atlantica. Era uno dei paletti che ci si era dati, ma che potrebbe saltare. Fino a qualche settimana fa, l’ossessione di Mosca era che la Nato non lasciasse entrare l’Ucraina e la Georgia, che da alcuni anni chiedono di essere ammesse nell’Alleanza, senza troppo calore da parte della Nato, che in realtà, nonostante dica a Putin che non è lui a decidere chi entra e chi esce, ha ben poca intenzione di inglobare Kiev e Tbilisi. Nelle sue proposte irrealizzabili, Putin chiedeva che il principio di finlandizzazione venisse applicato anche all’Ucraina e alla Georgia, ma inaspettatamente il presidente finlandese Sauli Niinistö ha rilasciato un’intervista al Financial Times per dire che anche Helsinki sta valutando la possibilità di entrare nell’Alleanza. Poco dopo pure la Svezia ha detto che starebbe pensando a rompere la sua neutralità. Jacob Westberg, professore della Swedish Defence University, ci ha detto che sono state due richieste di Putin a riaccendere il dibattito sull’adesione alla Nato. La prima è stata la richiesta di  non espandersi  a est e di fronte a questo paletto a Svezia e Finlandia è venuta voglia  di unirsi. L’altra  è il divieto ai Paesi baltici di compiere esercitazioni militari assieme ad altri stati.  “Credo che Stoccolma e Helsinki abbiano interesse a coordinarsi ancora di più: ne guadagneremmo in credibilità”, ci ha detto Westberg e ha aggiunto: “Da quando  la Svezia è entrata nell’Ue il governo ha smesso di usare il termine neutralità. Non siamo un paese non-allineato, siamo non allineati solo militarmente ma cooperiamo con molti paesi occidentali. Il che è anche uno svantaggio: non ci siamo mai impegnati formalmente a intervenire in aiuto di un paese partner e il prezzo che paghiamo è che la  Nato collabora con noi ma di noi non si può fidare al cento per cento”.

 

Finlandia e Svezia pensano di entrare nella Nato, ma gli europei non sanno salvare l’Ucraina da soli 

  

La leadership americana. Steve Erlanger è il corrispondente del New York Times in Europa, ha girato il mondo, lo fa anche adesso – “per ora sono sfuggito al coronavirus”, dice – e ha uno sguardo brillante ed esperto sulle relazioni tra i paesi europei, con l’America e anche con gli ex, gli inglesi quindi. Dice che “la paura nei confronti della Russia rende la Nato più unita”, ed è normale che sia così: contrastare l’espansionismo russo è il core business che torna rilevante “dopo che Donald Trump ha ridicolizzato la Nato minacciando persino di uscirne ed Emmanuel Macron ne ha dichiarato la morte cerebrale”. L’aggressività russa rimette l’Alleanza atlantica al centro della scena e con essa la sua leadership americana. Abbiamo sempre bisogno che arrivino gli americani a salvarci? “Questa è la storia della Nato – dice Erlanger – l’ombrello militare e nucleare è quello degli Stati Uniti da sempre. Quel che Washington ha capito in questi ultimi anni è che pure in periodi di pace la Russia non è in pace e lavora, con le sue inferenze e ingerenze, a rovinare le democrazie occidentali. Non si tratta di sole armi, quindi, il contrasto alla Russia va oltre la Nato. Ma oggi non ci sono molte alternative per gli Stati Uniti che devono continuare a fornire intelligence all’Ucraina e anche armi di difesa se davvero Vladimir Putin porterà avanti il suo piano massimalista”. Se dalla Nato passiamo a parlare dell’Ue “allora è tutta un’altra questione”, dice Erlanger: “L’Europa è una strana creatura, rivendica la propria autonomia strategica e la propria forza diplomatica ma poi si perde nelle sue divisioni e anche nei suoi limiti. Il primo che mi viene in mente è quello della dipendenza energetica: puoi fare la guerra a un paese che ti dà l’energia? Credo che in realtà non puoi nemmeno mettere sanzioni sul settore energetico” e questo sì che ha un peso sulla capacità diplomatico-militare dei paesi europei. Erlanger ci lascia con un’altra questione, decisiva: “Putin farà la guerra in Ucraina? Per ora noi conosciamo il suo piano massimalista, il più aggressivo, ma perché la diplomazia abbia davvero un senso è il suo piano minimalista che dovremmo conoscere”, quello che Putin è disposto ad accettare, insomma, non quel che continua a minacciare. 

 

Il problema tedesco.  Durante la crisi con l’Ucraina è venuto fuori quanto sia rischiosa l’ambiguità della Germania per l’unità dell’Alleanza. Oggi il segretario di stato Antony Blinken è a Berlino per cercare di capire che intenzioni abbia il governo tedesco che  sembra andare in due direzioni diverse. Da una parte c’è il ministro degli Esteri Annalena Baerbock che dice che non bisogna lasciare che Mosca usi il gasdotto Nord Stream 2 come un’arma contro l’Ucraina e contro l’Ue, dall’altro c’è il cancelliere Olaf Scholz che parla di Russia proprio se messo con le spalle al muro, e anche con le spalle al muro si limita a dire: be’, se la Russia invade Kiev ci saranno grandi ritorsioni. Sergej Sumlenny è un esperto di Europa orientale, ha lavorato in Ucraina, Russia e Bielorussia, vive in Germania e ci dice con chiarezza: “La Nato ha un grande problema tedesco”. La Germania ha sviluppato un’idiosincrasia, anzi un’apatia nei confronti dell’Alleanza e di tutto ciò che è militare. E questo atteggiamento si vede nelle condizioni in cui versa  la Bundeswehr. “Un tempo era una delle parti più forti dentro alla Nato, adesso è la più debole. E’ sottofinanziata, non ha personale e ha problemi di radicalizzazione”. Le mancano gli uomini, le mancano gli aerei, e anche i piloti. Il problema è politico, perché una parte consistente della politica tedesca crede di non avere bisogno della Nato, preferisce lavorare sui  rapporti economici con la Russia. Secondo questo principio, quando un paese chiede aiuto, la Germania fa un passo indietro. “La Nato vorrebbe portare armi difensive in Ucraina”, ci dice Sumlenny, “dispositivi elettronici che servono a neutralizzare droni. Ma ha un problema: ogni nazione può bloccarne la consegna e la Germania la blocca, anche se si tratta di strumenti di difesa”. La scusa è la storia, il debito della Germania nei confronti della Russia, ma, nota Sumlenny, se di debiti storici bisogna parlare anche quello con l’Ucraina non è piccolo. Inoltre Berlino si oppone con forza all’ingresso dell’Ucraina, per la sua posizione e le sue dispute territoriali con Mosca, ma anche quando Berlino è entrata nell’Alleanza, nel 1955, era un paese storicamente complesso, minacciato, in bilico. Un po’ come l’Ucraina di oggi. 

 

Un esperto ci dice che l’ambiguità della Germania è un grosso problema. Poi si deve decidere il post Stoltenberg


Dopo Stoltenberg.  Il mandato del segretario della Nato Jens Stoltenberg scade nel settembre del 2022 e lui si è candidato per diventare governatore della Banca centrale della Norvegia. Sessantadue anni, due figli, uno che studia a Shanghai, l’altra che canta negli Smerz, un duo norvegese di musica mezza elettrica mezza notturno-scandinava, appassionato di sport e di vacanze nei fiordi, Stoltenberg è stato primo ministro della Norvegia e così la sua prossima vita come eventuale governatore centrale è molto contrastata: si teme per l’indipendenza della Norges Bank. Ma nemmeno la sua successione alla Nato è priva di preoccupazioni. Candidature formali non ce ne sono, ma molte chiacchiere sì. In particolare una, la solita: ci vuole una donna. Poi ci sono le ambizioni nazionali o geografiche. Il Regno Unito vorrebbe molto questo incarico e avrebbe due candidati, l’ex premier Theresa May e l’ex ministro William Hague, ma gli altri paesi europei (sono 21 su 30) sono molto freddi con Londra per via del divorzio della Brexit e soprattutto c’è la Francia che si batterà per evitare che gli inglesi possano avere la guida dell’Alleanza, in particolare dopo lo sgarbo sui sottomarini australiani. Il sud europeo sarebbe favorevole a una candidatura italiana (c’è stato solo un segretario della Nato italiano in settant’anni, Manlio Brosio) e molti fanno il nome di Federica Mogherini, ex Alto rappresentante per la politica estera europea. Ma gli esperti sono un po’ scettici nei suoi confronti: troppo morbida con Russia e Cina. Ci sono anche altri nomi italiani, Enrico Letta e Matteo Renzi per dire, che però hanno il difetto di essere maschi. Il fronte più forte e con candidate molto competitive è quello dell’est Europa che è anche geograficamente il più esposto alla minaccia russa. Ci sono due ex presidenti, la croata Kolinda Grabar-Kitarovic e la nostra amatissima lituana Dalia Grybauskaite, e l’ex presidente dell’Estonia Kersti Kaljulaid. Sono donne e sono di area conservatrice: perfetto trend europeo, insomma. Ma hanno il difetto di poter sembrare troppo ostili nei confronti soprattutto della Russia, e molti, l’avrete capito, non hanno intenzione di indispettire più di tanto Putin, men che meno con delle signore. 

 

Spesso i colloqui tra russi e occidentali finiscono con una constatazione: non ci capiamo. Nel 1986 due conduttori, uno americano e l’altro russo, organizzarono una trasmissione televisiva chiamata in inglese Space Bridges, in russo Telemost. Volevano far comunicare i due mondi, aiutare a capirsi. In una puntata, delle donne di Boston e di Leningrado (oggi San Pietroburgo) si facevano domande e un’americana chiese se anche le pubblicità in Unione sovietica fossero ipersessualizzate come negli Stati Uniti. Una signora prese la parola e disse: “No, da noi non c’è sesso”. Venne sommersa dalle risate, altre donne russe giustamente puntualizzarono: sì che c’è. Il tempo si sa, cambia le parole e le storie, e la frase della signora di Leningrado è passata alla storia come “Non c’è sesso in Unione sovietica”. Poi si capì che  si trattò di uno dei primi grandi fraintendimenti tra due mondi che cercavano di capirsi. Quella volta finì a ridere, questa volta chissà. 
  

(ha collaborato Daniel Mosseri)