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la politica estera americana
Il pivot di Trump: con Mosca diplomazia, con Pechino rassegnazione
Dal confronto tra il documento strategico del 2017 e quello più recente emerge una svolta profonda della politica estera americana: la Russia non è più una minaccia per Washington ma solo per l’Europa, mentre con la Cina prevale una rassegnata ammissione di fallimento. Un cambio di linea che ridefinisce il ruolo degli Stati Uniti e mette alla prova la collaborazione con gli alleati
Ancora sul documento strategico di politica estera pubblicato qualche giorno fa dall’Amministrazione Trump. Sono colati fiumi d’inchiostro per commentare il nuovo atteggiamento nei confronti dell’Europa, ma il cambiamento nei rapporti con la Russia e la Cina è altrettanto rilevante. Basta fare il confronto con il documento strategico pubblicato nel 2017.
Cominciando dalla Russia, nel 2017 la prima Amministrazione Trump riteneva che “nonostante la minaccia del comunismo sovietico sia scomparsa, la Russia utilizza misure sovversive per indebolire la credibilità dell’impegno americano verso l’Europa, minare l’unità transatlantica e indebolire le istituzioni e i governi europei. Con le invasioni della Georgia e dell’Ucraina, la Russia ha dimostrato la sua volontà di violare la sovranità degli stati nella regione.”
Otto anni dopo, il presidente Trump sembra aver cambiato idea. Nell’ultima versione indica infatti che “a seguito della guerra della Russia in Ucraina, molti europei considerano la Russia una minaccia esistenziale.” Nonostante l’invasione dell’Ucraina nel 2022, la Russia è oramai una minaccia solo per gli europei, non più per gli americani. Il ruolo degli Stati Uniti non è più quello di “lavorare insieme (all’Europa) per contrastare la sovversione e l’aggressione russe” come otto anni fa, ma piuttosto di impegnarsi diplomaticamente “per mitigare il rischio di conflitto tra la Russia e gli stati europei.” Col senno di poi, il documento del 2017 ci aveva visto giusto quando sottolineava che “la Russia mira a indebolire l’influenza degli Stati Uniti nel mondo e a dividerci dai nostri alleati e partner”. La previsione si è evidentemente realizzata.
Nei confronti della Cina, l’atteggiamento americano, più che cambiato sembra rassegnato. Si riconoscono “le errate supposizioni americane per cui aprendo i nostri mercati alla Cina, incoraggiando le imprese americane a investire in Cina e delocalizzando la nostra produzione manifatturiera, avremmo facilitato l’ingresso della Cina nel cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole”. Questo non è avvenuto. La Cina è diventata ricca e potente e ha usato la propria ricchezza e il proprio potere a proprio vantaggio.” Non si danno però indicazioni chiare sulla politica da adottare in futuro, a parte qualche richiamo a porre fine ai “sussidi predatori diretti e alle strategie industriali distorsive; alle pratiche commerciali sleali; alla distruzione dei posti di lavoro e deindustrializzazione; ai furti di proprietà intellettuale su larga scala e spionaggio industriale; alle minacce alle nostre catene di approvvigionamento che mettono a rischio l’accesso degli Stati Uniti a risorse critiche, inclusi minerali ed elementi delle terre rare”.
Sorprende che non si parli più di dazi per contrastare il commercio cinese. Evidentemente l’esperienza degli ultimi mesi ha lasciato l’amaro in bocca. L’escalation di tariffe, iniziata con il Liberation day - il 2 aprile scorso – non ha smosso le autorità cinesi, che al contrario di quelle europee hanno subito adottato misure ritorsive nei confronti dell’America. A cominciare dal blocco degli acquisti di alcuni prodotti agricoli, in particolare la soja, colpendo così i redditi negli stati del mid-west tipicamente repubblicani. La contromisura più efficace è stata la restrizione volontaria alle esportazioni di terre rare, essenziali per la produzione di ampi settori strategici, dall’automobile all’aeronautica.
La Cina si era preparata da tempo, stabilendo accordi commerciali con i produttori di materie prime e creando un quasi monopolio nella raffinazione. L’efficacia delle contromisure cinesi ha spinto l’Amministrazione Trump a tornare sui suoi passi, pagando però un prezzo aggiuntivo. La rimozione delle restrizioni alle esportazioni di semiconduttori verso la Cina, in particolare quelli prodotti da Nvidia, che sono essenziali per la produzione di beni ad alta tecnologia. Il divieto americano è crollato di fronte alla minaccia dell’embargo sulle terre rare. Nel frattempo il surplus commerciale cinese ha superato il trilione di dollari, il livello più elevato della storia. Le esportazioni cinesi si riversano sui paesi industriali attraverso nuovi canali, a prezzi sempre più competitivi.
Il documento americano sottolinea che “gli Stati Uniti devono collaborare con gli alleati per contrastare pratiche economiche predatorie (cinesi) e utilizzare il potere economico per salvaguardare il primato nell’economia globale e garantire che le economie alleate non diventino subordinate a nessuna potenza concorrente”.
Un obiettivo strategico sicuramente condivisibile da parte europea. Tuttavia, se si vuole veramente “collaborare” con gli alleati bisognerebbe evitare di criticarne i sistemi politici e di colpirli con misure discriminatorie.