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Oltre l'Ucraina. L'illusione della bandiera bianca
La neutralità è un concetto che abbaglia leader e opinione pubblica: viene rispettata solo quando violarla costa troppo. La Seconda guerra mondiale insegna. Di fronte alla minaccia russa, la deterrenza è l’unica via
La neutralità non è mai stata un salvacondotto, si tratta piuttosto di una convenzione il cui valore dipende dalla volontà degli attori che la riconoscono. La Seconda Guerra Mondiale lo ha dimostrato con brutale chiarezza: nove Stati neutrali furono invasi tra il 1939 e il 1941 – Danimarca, Norvegia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, Islanda, Estonia, Lettonia e Lituania. La loro neutralità dichiarata non contò nulla di fronte al calcolo criminale di Berlino e Mosca, oltre che alla necessità strategica del Regno Unito. Persino la Svizzera, che pure mantenne la propria indipendenza, lo fece non in virtù di uno status giuridico, ma grazie a una combinazione di deterrenza militare – 650.000 uomini mobilitati su una popolazione di 4,2 milioni – e utilità economica per entrambi i belligeranti.
Edgar Bonjour, nella sua monumentale Geschichte der schweizerischen Neutralität, documenta come Berna avesse investito il 40 per cento del pil in difesa tra il 1939 e il 1945, fortificando il Ridotto alpino con 26.000 bunker e postazioni difensive. La neutralità svizzera resse perché costosa da violare, non perché rispettata per principio. Le Alpi erano ostacoli logistici reali in un’epoca di mezzi corazzati lenti e linee di rifornimento vulnerabili. Il contesto tecnologico era determinante: la distanza geografica imponeva vincoli operativi che oggi non esistono più. Un conflitto europeo moderno, su lunghe distanze, per certo oggi non inizierebbe con colonne di carri armati, ma probabilmente con sciami di droni, missili ipersonici e, ancor prima, attacchi informatici alle infrastrutture critiche e operazioni di sabotaggio. Senza pensare al nucleare, che pure Mosca evoca come opzione. L’Institute for the Study of War ha già documentato oltre 1.200 incidenti di sabotaggio in Europa dal febbraio 2022. Eppure in qualche modo la geografia continua ad avere il suo peso: pensiamo al contesto baltico. Il corridoio di Suwalki – striscia di 65 chilometri tra Kaliningrad e Bielorussia – è l’unico collegamento terrestre tra i paesi baltici e il resto della Nato. Nel 2023 la RAND Corporation ha simulato scenari di chiusura del corridoio: con le attuali forze dispiegate, la Nato impiegherebbe 60 ore per ristabilire il collegamento, durante le quali Estonia, Lettonia e Lituania sarebbero isolate.
Boris Pistorius, ministro della Difesa tedesco, ha avvertito che l’estate 2024 potrebbe essere stata “l’ultima estate di pace” per l’Europa. La Germania, ha affermato Pistorius, dovrà essere pronta ben prima del 2029, data di un ipotetico attacco russo su vasta scala ipotizzato dall’intelligence Nato e BND. Non è allarmismo: è la lettura di tendenze documentate. Il bilancio militare russo è cresciuto del 68 per cento dal 2022, raggiungendo il 6 per cento del pil nel 2024. La produzione di munizioni d’artiglieria russa ha raggiunto 3 milioni di colpi annui, quella europea 1,2 milioni. Mosca sta ricostruendo capacità che l’Occidente credeva distrutte e il 2029 potrebbe davvero trasformarsi nel 2026. Nel frattempo i cittadini europei dibattono ancora se la minaccia sia reale o meno. Sui social, di fronte alle preoccupazioni dei leader Ue, in Italia si leggono affermazioni deliranti: “mandate i figli dei politici a combattere”, come se la bandiera bianca preventiva ci potesse garantire riparo da un’aggressione. Come se, ipoteticamente, una volta aggrediti, bastasse dichiararci neutrali per poter continuare a vivere in pace.
La difficoltà europea di rispondere non è primariamente materiale, ma psicologica. La Germania rappresenta il caso più emblematico. Dopo la riunificazione, Berlino ha costruito la propria identità post-bellica su un pacifismo istituzionale che si rifletteva nei bilanci: dal 1990 al 2014 la spesa per la difesa è calata dal 2,8 per cento all’1,2 per cento del pil. La Bundeswehr è passata da 585.000 effettivi (1990) a 181.000 (2020). Il paradosso tedesco è che la sua potenza economica – primo pil europeo, benché in recessione – non si è mai fino ad ora tradotta in capacità di proiezione strategica, perché ogni discussione militare attraversava il filtro della colpa storica. La Zeitenwende (svolta epocale) annunciata da Scholz nel febbraio 2022 – 100 miliardi di fondo speciale per la difesa, impegno al 2 per cento del pil Nato – ha segnato una rottura retorica, anche se l’implementazione resta lenta. Solo di recente in Germania si è tornati a discutere della reintroduzione della leva obbligatoria, sospesa nel 2011. Il problema non è l’assenza di risorse, ma la persistente difficoltà culturale di accettare che la difesa è legittima, non un tradimento dei valori post-1945. Il cancelliere Merz, vista la sua determinazione, potrebbe fare la differenza.
L’Italia presenta una configurazione diversa, ma altrettanto problematica. La spesa per la difesa è stagnante all’1,5 per cento del pil (circa 28 miliardi di euro nel 2024), con investimenti concentrati su piattaforme legacy (F-35, fregate FREMM) piuttosto che su capacità per minacce ibride. Ma la vulnerabilità italiana è soprattutto percettiva: secondo un sondaggio Ipsos del settembre 2024, il 37 per cento degli italiani considera la Russia “un partner affidabile”, contro il 18 per cento della media Ue. Il 42 per cento ritiene che l’Italia “non dovrebbe sostenere militarmente l’Ucraina”. Si tratta di una percezione alimentata da fattori storici e culturali: un radicato antiamericanismo, la fascinazione per il “leader forte” e la penetrazione della propaganda russa nei media e sui social. Tutto questo si traduce in politiche discontinue: investimenti annunciati, poi diluiti nei successivi aggiustamenti di bilancio.
Proviamo allora ad allontanare lo sguardo dall’Ucraina, tenendo però sempre a mente l’idea secondo cui la bandiera bianca difficilmente garantisce la pace. Pensiamo a un Paese che ha sempre scelto di difendere i propri cittadini: Israele. Cosa sarebbe accaduto se Israele non avesse risposto all’aggressione araba del 1948, o se avesse semplicemente permesso che la Lega Araba costruisse la diga (approvata nel 1964) pensata per divergere le acque delle fonti del Giordano? O se non avesse scelto di attaccare nel 1967? Nel primo caso Israele avrebbe smesso immediatamente di esistere e gli ebrei sarebbero stati “gettati a mare”. Nel secondo caso, lo Stato ebraico avrebbe perso la possibilità di rifornire il lago di Tiberiade delle acque di due delle tre fonti del Giordano: il Banias e l’Hasbani. Questo avrebbe ridotto drasticamente l’acqua disponibile, compromettendo la sua sopravvivenza agricola ed energetica. E le ostilità sarebbero comunque scoppiate, ma con Israele molto più vulnerabile. Non dimentichiamo che l’acqua, in medio oriente, è potere strategico. Quanto all’attacco preventivo del 1967, va ricordato che Israele attaccò dopo la chiusura dello stretto di Tiran, dopo la mobilitazione congiunta di Egitto, Siria e Giordania e dopo che le truppe ONU – che avrebbero dovuto garantire la sicurezza – si erano ritirate su richiesta egiziana. Israele sarebbe stato attaccato con più forza e probabilmente non sarebbe sopravvissuto. La diplomazia non era servita a nulla, né a garantire la nascita di due Stati (rifiutata dai leader arabi), né a proteggere l’unico che era riuscito a nascere (aggredito dagli eserciti arabi). Tante parole, risultati zero.
Certo si potrebbe pensare che il paragone Israele–Ucraina sia azzardato, eppure vi sono non poche somiglianze. Si tratta di due paesi piuttosto giovani: Israele è indipendente dal 1948, l’Ucraina dal 1991. Entrambi hanno dovuto affermare la propria legittimità contro stati che la contestavano. Entrambi sono a contatto – seppur a scale geografiche molto differenti – con vicini più forti che negano la loro piena sovranità. Entrambi hanno subito un’invasione esistenziale e hanno reagito, nella convinzione che la bandiera bianca avrebbe portato loro non la pace, ma la scomparsa.
Ipotesi geopolitiche più o meno fantasiose a parte, non possiamo fare a meno di notare – guardando in casa nostra – il paradosso che sta emergendo in un settore del panorama politico italiano. Esiste infatti un’area che sostiene con convinzione Israele, ma che allo stesso modo guarda con simpatia alla Russia di Putin. Eppure, se riconosciamo a Israele il diritto e il dovere di difendersi da chi vuole cancellarlo, perché non riconoscere lo stesso diritto nel caso ucraino? Oltre tutto la Russia oggi è un partner strategico dell’Iran e l’Iran è il principale finanziatore di Hamas. La resa dell’Ucraina e la vittoria della Russia è anche la vittoria del principale nemico d’Israele: l’Iran. Se l’Europa, in questo contesto, apparirà debole, la Russia e i suoi alleati (Nord Corea, Cina, Iran) ne approfitteranno. Perché dovrebbero fermarsi? Di fatto molti cittadini europei paiono ancora cullarsi nelle proprie illusioni, per nulla interessati alle intenzioni russe. Ancora sogniamo che la neutralità possa funzionare in un sistema dove l’interdipendenza – energetica, digitale, logistica – rende ogni Stato vulnerabile indipendentemente dal suo status giuridico. Nei salotti buoni ipotizziamo che la deterrenza sia un concetto troppo robusto per democrazie sofisticate, quando invece è l’unico linguaggio che Mosca comprende. Ci piace pensare che il piano di resa in 28 punti, poi divenuti 19, ordito dall’amico americano sia una buona soluzione per tutti, quando è evidente che premiare la Russia rende solo più probabile un nuovo attacco. E non solo all’Ucraina. In altre parole, siamo di fronte a una riedizione del Memorandum di Budapest del 1994: in quell’occasione l’Ucraina cedette le sue 1900 testate nucleari alla Russia, in cambio della promessa del rispetto della sua integrità territoriale. Sappiamo come andò a finire: promesse violate nel 2014 e nel 2022.
Certamente mi trovo d’accordo con chi ritiene che Putin e i suoi alleati non stiano pianificando per domattina un’invasione terrestre di Berlino: si tratta di uno scenario improbabile, soprattutto per ragioni logistiche. Tuttavia, proprio chi ama la pace dovrebbe preoccuparsi, seriamente, per la graduale erosione della capacità europea di decidere autonomamente. Così come nel caso di Israele e Palestina, non si tratta di schierarsi contro qualcuno per simpatia verso qualcun altro, si tratta di essere coerenti con i valori che già sono nostri: sicurezza, sovranità, libertà. Al momento la Russia non ha bisogno di occupare capitali: le basta paralizzare infrastrutture critiche, amplificare divisioni politiche, dimostrare che la Nato non può proteggere i suoi alleati. La sicurezza europea non è solo un dato geografico, ma psicologico: è la percezione collettiva che la distanza conti ancora, quando invece la tecnologia l’ha resa irrilevante. Chi vive in Finlandia vede la minaccia a pochi metri dal confine, noi no, per questo non la percepiamo come reale. Eppure la storia dei nove stati neutrali invasi – e della Svizzera che si salvò perché pronta a combattere – non dovrebbe servire solo da monito retorico, ma da lezione operativa: la neutralità è rispettata solo quando violarla costa troppo.
Oggi l’Europa deve chiedersi se il costo di violare il suo spazio di sicurezza sia ancora abbastanza alto, o se la combinazione di dissuasione militare insufficiente e fratture politiche interne non abbia già reso quel costo accettabile per Mosca e risibile per Washington. La domanda non è se la minaccia arriverà, ma se saremo pronti quando arriverà. E un’eventuale resa di Kiev dimostrerebbe al mondo che non si può contare sulla debole e decadente Europa. Se a fermare Mosca non ci sarà più il coraggioso esercito ucraino, allora la strada per Berlino, Vienna, Roma sarà aperta. Un po’ come se Israele, nei confronti dell’Iran, di Hamas, di Hezbollah e di tutte le sigle del terrorismo islamista, avesse alzato bandiera bianca: a quest’ora Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa sarebbero cenere.
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