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la situazione
“Non una sola ong denuncia i crimini di Hamas”. Parla Mohar, l'ex di Amnesty Israele
C'è disagio tra le organizzazioni per i diritti umani nell'affrontare i crimini di Hamas: lo percepiscono come supporto alla narrativa israeliana. Il centro di questo pensiero è il quadro anticolonialista, infatti c’è scarso interesse per le atrocità in cui l’attore oppressivo non è occidentale, come nel caso del Sudan
Roma. Il Consiglio norvegese per la pace ha cancellato la tradizionale fiaccolata che si tiene ogni anno a Oslo per celebrare il premio Nobel per la Pace per protesta contro l’assegnazione dell’onorificenza alla venezuelana Maria Corina Machado. Il motivo è presto spiegato: Machado è nemica del regime di Maduro, è liberale, filo occidentale e filo israeliana.
Dopo le organizzazioni per la pace contro il Nobel per la pace, ecco le organizzazioni per i diritti umani selettivi sui diritti da difendere. Su Haaretz di questa settimana Yariv Mohar, già vicedirettore della sezione Israele di Amnesty International e direttore della Pro-Human Campaign, scrive: “Sono emerse numerose testimonianze – alcune supportate da filmati – di esecuzioni di oppositori politici, brutali torture di civili per strada in pieno giorno e uccisioni di civili che avevano semplicemente espresso gratitudine verso gli Stati Uniti o criticato Hamas”. Considerati questi fatti, scrive Mohar su Haaretz, “sono rimasto sbalordito nell’esaminare i resoconti di due delle più grandi organizzazioni per i diritti umani al mondo, Amnesty e Human Rights Watch, e scoprire che, al momento in cui scrivo, non vi è stato un solo riferimento a queste atrocità, nemmeno una dichiarazione iniziale che esprimesse preoccupazione e annunciasse un’indagine sul materiale”.
“Dalla mia passata esperienza come vicedirettore di Amnesty Israele, posso affermare che il silenzio non è sistemico” dice al Foglio Mohar. “Non credo che queste organizzazioni abbiano un’ideologia pro Hamas coerente; piuttosto, c’è disagio per ciò che (erroneamente) percepiscono come ‘supporto alla narrativa israeliana’ nell’affrontare i crimini di Hamas. Quindi tendono a evitare di indagare o pubblicizzare le atrocità di Hamas, o a dar loro una visibilità relativamente bassa, sostenendo che i crimini più gravi sono stati commessi da Israele e che l’attenzione dovrebbe rimanere su di esso. Il risultato è che queste ong sono percepite come parziali, unilaterali e apologetiche nei confronti di Hamas. Finiscono per adottare un approccio moralmente distorto e controproducente, anche in termini di protezione delle vittime palestinesi, una causa autenticamente giusta”.
C’è un problema culturale di fondo. “Le organizzazioni per i diritti umani sono molto sensibili alle dinamiche oppressore-oppresso e agli squilibri di potere, il che è generalmente positivo. Purtroppo, questa sensibilità a volte oscura altre considerazioni razionali, al punto che le atrocità possono essere minimizzate se commesse contro persone associate all’oppressore, come contro gli israeliani. E’ in questi casi che la prospettiva dello squilibrio di potere mina l’universalismo e l’umanesimo anziché rafforzarli. Quando ciò accade, l’impegno per i diritti umani viene compromesso da una narrazione che si presume sostenga gli oppressi”.
La cultura woke gioca un ruolo significativo, ma spesso nascosto e negato, nella condotta delle organizzazioni per i diritti umani. “Il loro futuro bacino di utenza è costituito in gran parte da giovani occidentali progressisti che hanno una sensibilità woke. Nel tentativo di attrarre e mobilitare questo pubblico, queste organizzazioni – a volte involontariamente o senza piena consapevolezza – tendono verso il wokismo e la sua eccessiva enfasi sugli squilibri di potere, al punto da prevalere sull’universalismo e sull’umanesimo. Una parte importante di questa sensibilità è il quadro anticolonialista che, se applicato ragionevolmente, può contribuire a far luce sulle carenze morali dell’occidente, passate e presenti. Ma se applicato in modo distorto, diventa uno strumento per concentrarsi quasi esclusivamente sui difetti morali dell’occidente. Pertanto, c’è scarso interesse per le atrocità in cui l’attore oppressivo non è occidentale, come nel caso del Sudan”.
Ora in gioco c’è il futuro delle ong. “Se le numerose voci critiche all’interno della comunità umanitaria saranno abbastanza sagge da collaborare e formulare un approccio alternativo al lavoro sui diritti umani di stampo woke credo che potremo superare questa crisi. Molti di noi vorrebbero che la lotta per la giustizia fosse più efficace e orientata ai risultati, e che fosse più saldamente fondata sull’umanesimo e sull’universalismo, i principi fondamentali trascurati del lavoro per i diritti umani”.