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Il giorno dopo a Gaza

Come spiegare a un amico che l'accusa di genocidio a Israele si regge su un teorema distorto

Yasha Reibman

Chi parla di “pulizia etnica” non accetta che gli ostaggi israeliani siano la motivazione del conflitto, credendo questo sia solo un pretesto per una guerra di conquista dello stato ebraico. Una certezza granitica, su una base molto debole

Quando la guerra a Gaza finirà cosa faremo? La ferita tra Israele e l’opinione pubblica occidentale, o almeno una parte di essa, è profondissima. Chi firma appelli o scrive sui social contro il “genocidio” non è interessato a sentirsi dire che la stessa retorica (“genocidio!”, “nazisti!”) è stata utilizzata da decenni. A giugno 1982, durante la prima guerra in Libano, il Manifesto annunciava “Israele tenta il genocidio”; il grande vignettista Giorgio Forattini rappresentava all’inferno Adolf Hitler commentare “questi qui mi fregheranno anche i diritti d’autore”; Pci, Psi. e Democrazia Proletaria convocavano a Bologna una manifestazione “Fermiamo questo genocidio”.

 

      

 

La retorica sovietica sul “nuovo nazismo” israeliano era iniziata dal 1967. ‘Ma basta’, dice chi oggi denuncia il “genocidio”. Settimana scorsa, in prima pagina un quotidiano mostrava una foto satanica del premier israeliano Benjamin Netanyahu con titolo “il vero padrone del mondo” e implicitamente richiamava l’accusa già rivolta agli ebrei dal falso pamphlet scritto dalla polizia segreta zarista, “I protocolli dei Savi di Sion”. Le stesse idee riprendono vita, ma la storia delle idee non interessa, perché chi è convinto, che oggi ci sia un “genocidio”, parla sull’urgenza, spesso con la segreta e illusoria convinzione che un appello sottoscritto dalla categoria lavorativa di riferimento o un post sui social possano minimamente influenzare la realtà in medio oriente. Influenzano invece quanto succede qui, nelle nostre città, dove l’antisemitismo è moralmente autorizzato proprio dal clima emotivo esacerbato dalle accuse genocidiarie, ma questo tutt’al più porta a dire “chiamatelo come vi pare!” oppure “se questo è antisemitismo, allora lo siamo!”.

Chi ha la risposta non è interessato a farsi domande, né a spulciare statistiche. Ci si abbevera ai numeri dei morti forniti dal ministero della Sanità di Gaza, emanazione di Hamas, poiché questi dati vengono ripresi, e così validati, dalle ong che operano sul campo. E richiederebbe un sovrappiù di ragionamento fermarsi a riflettere che Hamas ha instaurato una dittatura fondamentalista e che per poter operare a Gaza bisogna ripetere i dati della propaganda. Ma se anche prendessimo per buoni i numeri forniti da Hamas e li analizzassimo scopriremmo che i morti sono per lo più maschi in età da combattimento: questo dato, freddo e cinico, non cancella lo strazio per le vittime innocenti, ma da solo mostrerebbe che i bombardamenti di Israele non sono “indiscriminati”. Il fatto che manchino ordini – dal primo ministro allo Stato maggiore o da questi ai generali – con una volontà genocidiaria, elemento fondamentale per dimostrare il reato, e che gli ordini siano volti a ridurre il numero delle vittime civili, non solleva dubbi. Il fatto che l’esercito israeliano perseguiti penalmente e punisca soldati e ufficiali, che abbiano compiuto singoli reati, strappa un sorriso scettico. L’accusa sfodera i nomi degli studiosi di genocidio a loro favore, ma dimentica che si tratta di una esigua minoranza degli addetti ai lavori. Oppure premia e porta in processione quegli ebrei che partecipano al festival contro Israele.

Quello in atto a Gaza sarebbe il primo “genocidio” della storia in cui le vittime potrebbero farlo finire liberando gli ostaggi nei tunnel di Hamas. Questa osservazione scandalizza, perché confonde i palestinesi con Hamas; eppure il punto resta: nessun altro “genocidio” del passato aveva un freno a mano che non fosse nelle mani di chi lo stesse compiendo. I rivoltosi del Ghetto di Varsavia nel 1943 non avevano negli scantinati tedeschi da rilasciare. Ma chi è convinto dell’accusa non accetta nemmeno che gli ostaggi israeliani siano la motivazione del conflitto, semmai un pretesto per una guerra di conquista: lo stato ebraico assetato di sangue e terra. Siamo di fronte a una certezza granitica: tutto vien fatto rientrare nella cornice interpretativa. Mutatis mutandis, c’è un nuovo dogma. Forse basterebbe aspettare prima di giudicare e vedere alla fine della guerra se il popolo palestinese a Gaza sarà stato spazzato via, ma quanti hanno già emesso la sentenza (“genocidio!”, “pulizia etnica!”), nella loro impotenza e nel candore delle loro coscienze, inorridiscono e per essere moralmente irreprensibili non hanno un minuto da perdere. Mi chiedo se – quando a guerra finita sarà evidente che Israele non avrà compiuto alcun “genocidio”, quando si potrà tornare a pensare – riusciranno almeno a chiedere scusa?

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