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il racconto

Le bombe a Evin non distinguono tra “magistrati crudeli e prigionieri politici”

Tatiana Boutourline

A Teheran le autorità hanno accompagnato un gruppo di giornalisti stranieri a visitare alcuni dei luoghi bombardati, tra cui il carcere di Evin. È ancora difficile stabilire ciò che è accaduto lì lunedì, ma è certo è che l'esplosione non abbia fatto distinzioni tra le vittime

Ieri, a due giorni dall’inizio della tregua, l’ayatollah Ali Khamenei è ricomparso in un video in cui ha rivendicato la vittoria contro “il falso regime sionista” e  ridimensionato la portata dell’attacco americano contro le installazioni nucleari iraniane. Gli Stati Uniti, ha detto, “non sono riusciti a ottenere nulla di significativo”, è Teheran, invece, ad aver assestato agli americani “uno schiaffo sonoro”. Ma più che le parole, surreali, ma prevedibili, perché in linea con la narrazione che da 48 ore viene veicolata dalla propaganda in tutte le sue possibili diramazioni, dalla televisione di stato, alle piazze, ai social network, quello che colpisce dell’ultima apparizione della Guida Suprema, è la sensazione di un’inarrestabile decadenza. Immortalato davanti alle stesse tende color tortora del suo ultimo messaggio, Khamenei è apparso provato, come se il turbante nero che porta sulla testa gli pesasse più del solito, era rauca la voce, stanchissimo il volto ed era evidente la fatica con cui gli rotolavano fuori le parole, parole di trionfo così scollegate dai fatti e dalla sua stessa permanenza nel bunker, da suonare non solo false, ma ridicole.  


“L’Iran ha vinto” ha detto Khamenei, ma in realtà, a Teheran, tutto parla di sconfitta. Sconfitto lui, che non è ancora riemerso dal bunker, perché paventa attentati e colpi di stato e non si fida di nessuno, sconfitti i pasdaran, umiliati nei cieli e stanati ovunque sulla terra, dagli appartamenti alle basi militari, e sconfitti gli iraniani consapevoli che quando il regime traballa, l’unico modo in cui è programmato per agire è la forza. Ieri a Teheran le autorità hanno accompagnato un gruppo di giornalisti stranieri a visitare alcuni dei luoghi bombardati, tra questi figurava la famigerata prigione di Evin, colpita lunedì all’1.30, ora iraniana, da un’esplosione, di cui è parsa subito evidente la portata simbolica. Perché di tutti i centri del terrore khameneista, Evin è il più noto e insieme il più paradigmatico, e dunque far saltare il suo cancello era un po’ come far saltare, idealmente, le catene di 90 milioni di iraniani. Ma la realtà, come spesso accade, è più complessa e ingarbugliata di una metafora e quello che alcuni hanno frettolosamente salutato come “il momento della Bastiglia”, di ora in ora si è andato rivelando come un esempio di tutto ciò che può andare storto nello strazio di una guerra.


È ancora difficile stabilire cosa sia accaduto a Evin lunedì, le fonti indipendenti non offrono resoconti univoci e anche i media di regime presentano versioni discordanti tanto sulla dinamica quanto sul numero e sull’identità delle vittime (alcune testimonianze individuano tra i morti il temuto procuratore generale Ali Qanatkar, i guardiani Vahid Heidarpour e Rouhollah Tavassoli, l’artista Mehrangiz Imenpour che avrebbe sostato in una delle stanze del pubblico ministero, un medico e un padre, ancora senza nome, che si era recato a Evin per pagare una cauzione). Ci sono però alcuni fatti su cui le testimonianze convergono. L’esplosione ha danneggiato tanto il cancello all’ingresso della prigione, quanto l’infermeria, la sala dei visitatori, la biblioteca, l’ufficio del pubblico ministero e due aule di tribunale, interne al penitenziario, “Kachouyi”, nella parte settentrionale del complesso, e “Moghaddasi”, in quella meridionale.

Si tratta delle aule attraverso le quali sono transitati migliaia di manifestanti e di figure chiave dell’opposizione anti regime, luoghi in cui si incontrano avvocati, praticanti, segretarie, cancellieri, mogli e mariti di dissidenti, ma anche ragazzi che si sono semplicemente messi nei guai, e altri ragazzi della stessa età a Evin perché stanno svolgendo il servizio di leva, insomma per dirla in breve, gente pro e contro il regime, sorpresa nel pieno dell’orario di lavoro, dentro una prigione che oltre a essere un simbolo è pure un crogiolo di vite di tutti i tipi. E siccome appunto, la realtà è cosa ben diversa dalla metafora, quando si è diffusa la notizia dell’attacco, chi i cancelli della prigione se li è sentiti chiudere dietro alle spalle ha provato un brivido. “Le bombe non distinguono tra magistrati crudeli e prigionieri politici”, ha scritto su Time Siamak Namazi, già ostaggio a Evin per otto anni. Le bombe non conoscono il coraggio tranquillo delle supereroine che salvano vite nelle infermerie. “Porto ancora il suo odore, l’odore di tutto ciò che è umido e malato, sulla pelle – ha raccontato un’ex prigioniera al Foglio – ma non sono felice dell’attacco, non posso esserlo. Quella bomba è solo la dimostrazione plastica della nostra disperata solitudine”.

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