
La Grande muraglia doveva scoraggiare le invasioni, ma anche impedire che la gente si spostasse ancora di più verso il cosiddetto Far West cinese (Getty)
Un impero per i migranti
Accogliere, non respingere: questa la scandalosa proposta che girava nell’antica Cina. Funzionò, e nacque una potenza
Un despota, aspirante “imperatore del mondo”, è frustrato dai ripetuti insuccessi nell’imporre la sua egemonia sul piano internazionale e nel fronteggiare l’imminente crisi economica. Il suo principale consigliere gli suggerisce un rimedio controintuitivo: “Attrarre migranti”, anziché espellerli e respingerli alle frontiere. Anzi addirittura di concedergli privilegi fiscali, assistenza, persino esenzione dal servizio militare forzoso. Stranamente, funziona. Così la sua dinastia si impadronisce di tutta la Cina.
È un capitolo del “Libro del signore di Shang”, manuale impareggiabile del dispotismo. Lo scrive il leggendario consigliere dei sovrani di Qin
Succedeva 24 secoli fa. Il despota è il re di Qin, la massima potenza militare mondiale dell’epoca. Il testo è un capitolo del Libro del signore di Shang (Shang Yun Shu). Si tratta di uno dei classici che ispirarono l’unificazione della Cina sotto un unico imperatore, Qin Shi Huangdi. E’ un manuale impareggiabile del dispotismo e del governo autoritario. Da allora la Cina si è barcamenata, per millenni, tra le prescrizioni di questa bibbia originale della scuola di pensiero “legista” (tutto il potere nelle mani di un unico despota e della sua “legge”) e l’“umanesimo” confuciano (tutto il potere all’élite di funzionari e intellettuali). Mao non faceva mistero della sua predilezione per il Primo imperatore e i suoi metodi spietatamente autoritari. Alcuni dei suoi successori avevano invece riabilitato il confucianesimo. Xi Jinping tenta una sintesi tra le due scuole.
Il capitolo in questione del Libro del signore di Shang è intitolato proprio “Incoraggiare l’immigrazione” (cap. IV, par. 15). Nota che per ben quattro generazioni lo stato di Qin, pur avendo condotto guerre vittoriose contro gli stati vicini, Han e Wei, pur avendo annientato Zhao, pur avendo devastato le loro terre e ucciso “diversi milioni” di nemici, non è riuscito a sottometterli al proprio impero. Anzi, si è impoverito e indebolito, svenandosi di soldati, di tesoro per finanziare le guerre e, soprattutto, di produttori. Perciò propone una soluzione che rompa radicalmente con i metodi del passato: attrarre popolazione (lai min), far venire popolo, insomma aprire ai migranti.
Han e Wei (gli stati vicini e avversari di Qin) “hanno un territorio angusto, ma una popolazione numerosa; le loro dimore sono affastellate l’una all’altra: la produzione di cereali è insufficiente […] più di metà [della loro popolazione] è costretta a vivere in grotte scavate [nel loess del bacino del fiume Giallo] o in riva agli acquitrini formati dal fiume”. Qin invece ha un territorio in gran parte inutilizzato, sotto-abitato. “Una situazione in cui il territorio non sia sufficiente a mantenere la popolazione è peggiore di quella in cui, come accade per lo stato di Qin, la popolazione sia insufficiente a utilizzare pienamente il proprio territorio”. “Quel che il popolo desidera [più di ogni altra cosa] sono campi ed abitazioni”. A loro queste cose mancano, mentre Qin ne ha invece in sovrabbondanza. Ma la spinta a migrare “verso occidente” [cioè verso lo stato di Qin] è frenata dal fatto che i dirigenti di Qin hanno una valutazione erronea della situazione, e il popolo è amareggiato dalle proprie difficoltà (questa è presumibilmente una delle ragioni per cui è contrario ad accogliere immigrati).
Non si limita a suggerire che si accolgano gli immigrati, ma che li si incentivi con esenzioni fiscali e dal servizio militare, titoli e cariche
La soluzione proposta non si limita a suggerire che si accolgano gli immigrati. Suggerisce addirittura che li si incoraggi, li si incentivi a venire. Non solo i profughi e i perseguitati, gli scontenti dei regimi da cui sono pronti a fuggire, ma coloro che oggi definiremmo “immigrati economici”. Si sfamino, si diano mezzi di sussistenza a coloro che vogliono sottrarsi alla miseria e alla fame. In barba “alle nostre leggi di Qin” secondo cui “gente senza meriti non dovrebbe ricevere alcun tipo di assistenza”. Gli si offrano addirittura esenzioni fiscali “per lunghi periodi”, anzi “per tre generazioni”, assistenza all’insediamento, titoli e cariche nell’amministrazione, persino esenzioni dal servizio militare “per dieci anni”. Il servizio nell’esercito sarà affidato alle popolazioni originarie di Qin, mentre i nuovi arrivati assicureranno la produzione dei rifornimenti. Questo, si sostiene, indebolirebbe gli stati di provenienza e invece rafforzerebbe economicamente, ma anche militarmente Qin. Qin potrebbe contare su milioni di lavoratori in più. “Se le genti [degli stati rivali] vengono indotte ad immigrare allettate da pascoli e terre fertili, questo modo di infliggere danni al nemico sarà altrettanto reale di una vittoria in guerra […] Con questo piano si prenderanno due piccioni con una fava”. E’ l’esatto contrario di quel che si era fatto sino a quel momento, e delle teorie dominanti.
Questo capitolo del Libro del signore di Shang è sempre stato di difficile interpretazione. Un’ipotesi è che si tratti di un memoriale indirizzato al sovrano, forse introdotto in epoca successiva. L’autore, che si tratti effettivamente di Yang Shang, il leggendario consigliere dei sovrani di Qin che per i suoi servigi era stato premiato con la concessione dei feudi di Shang, o di qualcun altro, sa benissimo che la sue proposte sono troppo innovative, anzi scandalose. Che susciteranno una levata di scudi e gli attireranno l’inimicizia degli altri consiglieri e feudatari.
“Se Vostra Maestà continua a non approvare, allora il vostro servo è troppo stupido per capire”, si lascia andare a dire a un certo punto. Aveva visto giusto. Ma nella corte Qin era malvisto, sospetto anche perché perché era lui stesso uno straniero, originario dello stato nemico di Wei. Yang Shang fece una brutta fine: fu squartato, narrano gli storici, da carri lanciati in opposte direzioni. Ma c’è chi ritiene che furono le sue proposte a far sì che un secolo dopo, il Primo imperatore Qin fosse in grado di conquistare e unificare la Cina.
Non fu rose e fiori. La costruzione di strade e di canali per il trasporto fluviale, la standardizzazione della lingua scritta, dei pesi e delle misure, consentirono la mobilità di grandi masse di popolazione, oltre che di grandi eserciti. Fu un immane processo di globalizzazione e di integrazione. La Grande muraglia avrebbe dovuto scoraggiare invasioni e scorrerie di popoli nomadi dalle steppe, ma anche impedire che la gente si spostasse ancora di più verso quello che ancora oggi viene chiamato il Far West cinese, in cerca di maggiori libertà ed opportunità. La grande immigrazione in Qin era solo in parte volontaria, per libera scelta. Alcuni studiosi le chiamano senza mezzi termini “migrazioni forzate” o “organizzate dallo stato”. Altri mettono invece l’accento sull’incoraggiamento e l’assimilazione dei nuovi arrivati grazie a una rete di nuovi insediamenti, infrastrutture logistiche, burocratiche e militari. Comunque sia, le migrazioni produssero anche malcontento, ribellioni, recriminazioni, sia tra i nuovi arrivati che tra coloro che il loro arrivo aveva “disturbato”. Spesso a provocare le agitazioni erano i potentati locali, a loro volta “disturbati” dalla concentrazione assoluta del potere al centro, nella figura dell’imperatore.
Sotto Mao non si immigrava e non si emigrava, con Deng arrivò il movimento dalle campagne alle città, la più grande migrazione interna della storia
Quella di Qin Shi Huangdi fu la dinastia di più breve durata di tutta la storia cinese. Appena 15 anni, dal 221 al 206 a.C. Alla sua morte si sarebbe dissolta in men che non si dica, in un maelstrom di guerre civili. L’impero invece no. Continua ottimamente nella sua più recente incarnazione, la dinastia del Partito comunista fondata da Mao. Sotto Mao non si immigrava e non si emigrava. Senza passaporto interno non si potevano lasciare le comuni. A venire in città da illegali, senza tessera per i cereali, si rischiava letteralmente la morte per fame. Fu Deng Xiaoping a cambiare tutto. Reagan gli aveva chiesto di aprire le frontiere per far uscire gli scontenti e i dissidenti. Deng gli aveva risposto: “Quante decine di milioni ne volete accogliere?”. Da allora gli americani si sono guardati bene dal risollevare l’argomento. La grande trasformazione è stata però la possibilità di muoversi dalle campagne verso le città. La più grande migrazione interna nella storia mondiale, oltre mezzo miliardo nel giro di pochi decenni. Più o meno illegale, più o meno repressa o tollerata, ma inarrestabile. A prezzo di ignobile sfruttamento dei nuovi arrivati, specie se clandestini, di terribili sofferenze e disordini sociali, di rivolte da parte degli immigrati e contro gli immigrati. Gli manca solo, finora, il dramma dell’immigrazione dall’estero. Ma non si può escludere che il calo demografico gli apra anche questo capitolo. Finora è stata questa immane mobilità migratoria interna a consentire il grande boom cinese.
Più l’antichità è remota, meno si attaglia ad analogie col presente. La Cina dell’epoca degli stati combattenti non ha nulla a che fare con le complessità del nostro mondo. Ma è difficile resistere al fascino di un testo che 24 secoli fa suggeriva, assolutamente controtendenza, che la grandezza di un impero si consegue accogliendo, anzi “attirando” immigrati, nuova popolazione, anziché respingendoli. Ho utilizzato in parte la traduzione in italiano della classica edizione a cura di J.J.L. Duyvendak, pubblicata da Adelphi nel 1989. Ma a farmi scattare la scintilla dell’interpretazione che precede è stato un saggio recente di uno dei massimi e più prolifici studiosi contemporanei della Cina antica e dei suoi testi, l’israeliano Yuri Pines. Waging a Demographic War: Chapter 15, “Attracting the People,” of The Book of Lord Shang Revisited, pubblicato nel 2023, origina da un seminario di sinologi tenutosi in Germania nel 2018. Suggestivo che avessero scelto di intitolarlo: “Making Qin Great Again”.
Donald Trump non è certo il primo ad aver fatto della questione immigrati un terreno di battaglia politica (e ora pure di guerra per le strade). Hai voglia a spiegargli che l’America è rimasta grande proprio grazie ai così indesiderati immigrati, clandestini dal Messico compresi. Ha avuto predecessori e imitatori in tutte le epoche e in tutto il mondo. In America le truppe federali intervenivano a sedare le rivolte che avevano al centro la questione immigrati già da fine Ottocento. Sparavano contro chi li voleva linciare e chiedeva che venissero rimandati a casa. Alle miniere di carbone dell’Union Pacific Railroad di Rock Springs, nel Wyoming, nel 1885, i minatori bianchi uccisero 28 cinesi, ne ferirono diverse decine, li cacciarono tutti e 700 dal loro accampamento. Dovette intervenire l’Us Army.
Era una vera e propria guerra di classe. Le rivolte in California erano promosse dai sindacati, i Knights of Labor, e poi l’American Federation of Labor. Alle manifestazioni violente prendevano parte operai e immigrati bianchi dall’Europa. Si distinguevano per ferocia le donne, a difesa del posto di lavoro e dei salari dei loro uomini, nonché della loro moralità messa a rischio dalle “puttane asiatiche”. La parola d’ordine era: “The Chinese must go!”, i cinesi se ne devono andare. Si sprecavano la propaganda, gli stereotipi razzisti, da una parte e dell’altra. I docili coolie venivano indicati come incarnazione del Male, della depravazione, della delinquenza. Invocavano il licenziamento dei cinesi, per “farla finita con il nuovo schiavismo” di chi li assumeva. Si evocava l’invasione e la “conquista” degli Usa da parte di “orde di mongoli oppiomani”, a meno che non venissero erette opportune barriere. Mentre a difendere i diritti civili degli immigrati cinesi erano le grandi imprese minerarie e di costruzione delle ferrovie che avevano bisogno di manodopera a basso costo. Industriali e banchieri esaltavano, contro i detrattori, la moralità, l’onestà, l’industriosità, la pulizia dei cinesi. Populismo puro contro élite.
Niente di nuovo sotto il cielo, dunque? Non c’è il minimo dubbio che quei lavoratori arrabbiati avrebbero sostenuto Trump e la sua linea dura verso gli immigrati. Il Chinese Exclusion Act del 1882 sospese l’immigrazione di cinesi, gli precluse la cittadinanza americana. La guerra sarebbe continuata per buona parte del primo Novecento. Estendendosi all’immigrazione italiana e a quella degli ebrei dall’Europa dell’est. Forse è una delle ragioni per cui il socialismo all’europea non prese mai piede negli Stati Uniti.
A Los Angeles i nostri uomini in uniforme “stanno fermando un’invasione, così come voi fermereste un’invasione”. Lì “abbiamo dispiegato migliaia di soldati della Guardia nazionale, centinaia di marines. Se non l’avessimo fatto, non ci sarebbe più Los Angeles, sarebbe bruciata”. “Generazioni di eroi del nostro esercito non hanno versato il loro sangue perché il nostro paese oggi venga distrutto da un’invasione dal Terzo mondo. Perché proprio questo è quel che sta succedendo: un’invasione straniera del nostro paese da parte di facinorosi prezzolati che sventolano bandiere straniere”. “In quanto comandante in capo non consentirò che succeda”, solo perché “degli stupidi, la sinistra radicale, dei politici dementi, hanno consentito che milioni di persone entrassero senza alcun controllo”. Gente “che veniva dalle prigioni di tutto il mondo, dai manicomi, caporioni di bande criminali, signori della droga, gente che i loro paesi d’origine non volevano più”. “E’ davvero orribile […] e ora il mondo intero può vedere come l’immigrazione incontrollata porta al caos, alla distruzione, al disordine. Sapete, succede anche in Europa. A loro non piace che io lo dica chiaro e forte, come continuerò a fare, ma sarebbe bene che anche loro [gli europei] si diano una mossa prima che sia troppo tardi”. “Io spero di potervi tener fuori da tutto questo. Ma, se non ci riuscissi, voi sareste pronti, non è vero?”. Queste alcune delle parole più misurate che Trump ha pronunciato davanti ai militari che lo ascoltavano celebrare i 250 anni delle forze armate Usa, a Fort Bragg, sede dei reparti d’élite.
Un senatore repubblicano del Texas paragonava gli immigrati negli Usa ai Goti. Analogia che non rende la complessità del crollo di Roma
Un senatore repubblicano del Texas già qualche anno fa aveva paragonato l’invasione degli Usa da parte degli immigrati a quella dei Goti, cui l’imperatore Valente aveva consentito di varcare i confini dell’impero romano “perché l’impero aveva bisogno di soldati e di lavoratori”. Fu lui a invitarli, offrendogli cittadinanza, privilegi fiscali e godimento della romanitas. Ma quelli non diventarono romani. Anzi finirono col mettere a ferro e fuoco Roma. “L’America non rischia forse di fare le stessa fine?”, la conclusione del senatore. Si chiamava Ted Poe, portava per combinazione il nome del più grande scrittore americano di incubi. In realtà le cose non andarono proprio così, le cause del crollo dell’antico impero romano sono un tantino più complesse di quanto lasci intendere questa analogia. Nel frattempo però il discorso e la retorica sull’arrivo dei barbari ha fatto molta strada, si è diffusa e involgarita a dismisura. Per inciso, ha fornito la spinta per riportare Trump alla Casa Bianca. Gli immigrati illegali sono diventati argomento imprescindibile. Se scomparissero da un giorno all’altro, l’America si chiederebbe sgomenta, come nella poesia di Kavafis: “E adesso, senza barbari, cosa ne sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente”.