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l'estratto

Ho visto Castro a Harvard

Sam Tanenhaus

Nel 1959, William Buckley raccontò gli studenti in visibilio di fronte al leader cubano “con aspirazioni da tiranno”. La missione fallita di Kennedy, i consigli sbagliati e la nascita di un nuovo conservatorismo 

Pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro dello storico Sam Tanenhaus, “Buckley: the life and the revolution that changed America”, pubblicato da Random House il 3 giugno negli Stati Uniti.



L’ascesa parallela di Bill Buckley e Bob Welch ha una spiegazione semplice: i comunisti stavano vincendo la Guerra fredda. Le conquiste fatte sotto Stalin si erano espanse sotto Kruscev in tutti i continenti, compreso, con grande paura, il Nord America. A meno di cento miglia dalla costa della Florida, il giovane leader di Cuba, Fidel Castro, di un anno più giovane di Bill Buckley, era diventato il nuovo volto e la voce della rivoluzione comunista. Ma che tipo di comunista era: un servo di Mosca o un uomo imprevedibile e indipendente? Nemmeno Jim Burnham, l’esperto della National Review, quando si parlava di rivoluzioni, era in grado di dirlo. Con la sua barba, la sua tuta e il suo berretto militare, “Castro non sembra avere lo stile bolscevico”, scrisse Burnham nel 1959, nove mesi dopo l’inizio della dittatura

Quando Castro visitò Harvard nel maggio del 1959, Buckley mandò a Cambridge John Leonard, un neoeletto della National Review, a dare un’occhiata. La visita di Castro fu “l’evento sociale della primavera di Harvard”, riferì Leonard. Quando parlò alla Dillon Field House, “sembrava che l’intero campus fosse presente, riempiva settemila sedie pieghevoli e tutto il prato... e otteneva così un’appropriata miscela di un’atmosfera  tra il carnevale e il campo di concentramento, una folla impazzita di studenti in cerca di posti a sedere, fotografi di Life con le loro macchine fotografiche, ingegneri televisivi che impartivano ordini, cubani-americani che indossavano bracciali fidelisti ... giornalisti del Crimson che si aggiravano con disinvoltura... Ogni persona con la barba veniva applaudita in modo esilarante… Bisogna riconoscere a Castro un fascino personale, una consistenza quasi impeccabile di unione tra l’uomo, la missione e il popolo. Dai tempi di Huey Long nessuno ha invocato così spesso “il popolo”, come autorità divina e sublimata per tutte le sue azioni. E’ piuttosto evidentemente sincero, come Savonarola, e simpatico, come Joe McCarthy”.

Buckley, coautore dell’articolo, ha aggiunto i suoi tocchi. Castro poteva essere divertente da guardare e ascoltare – il termine di moda “carisma” gli è stato affibbiato tanto spesso quanto a JFK – ma era anche pericoloso: “Il suo imperialismo senza uscita [è] una minaccia per la stabilità dell’America Latina. Il suo volubile umanitarismo non sembra precludere l’impiego di bulldozer per seppellire i corpi degli uomini che uccide, né apre le porte delle prigioni dove sono incarcerati i giornalisti che lo hanno criticato”. “Castro può avere l’indole di un grande uomo del popolo, ma ha anche le aspirazioni di un tiranno”

Buckley e Leonard avevano appena iniziato. Buckley ottenne da Leonard le credenziali stampa per recarsi all’Avana per una settimana e raccontare le traversie del giornalista Ernesto de la Fé, tenuto prigioniero assieme ad altre mille persone, in attesa di un processo farsa e di una possibile esecuzione. Anche se l’ambasciata cubana a Washington gli aveva assicurato che avrebbe potuto intervistare de la Fé, non gli fu poi permesso. Tuttavia, riuscì a parlare con cubani ben informati – giornalisti, professionisti, studenti – e a mettere insieme i fatti. “De la Fé non è stato formalmente accusato di alcun reato”, riferì Leonard. “Non ha visto il suo avvocato, sua moglie, i suoi fratelli e nessuno dei suoi amici dopo il suo arresto. Non sa che sua moglie ha dato alla luce una figlia due mesi fa. Le lettere e i telegrammi a lui indirizzati alla prigione di La Cabaña vengono deviati o distrutti”.

Alla fine, de la Fé fu incarcerato per quindici anni e ne trascorse altri sette confinato sull’Isola dei Pini, prima di poter lasciare il paese nel 1981, all’età di sessantacinque anni. Andò negli Stati Uniti e divenne una figura celebre nella comunità degli esuli cubani, criticando il regime e il comunismo internazionale. Il reportage di Leonard fu uno dei primi resoconti seri di ciò che Castro e il suo alleato Che Guevara stavano realmente facendo a Cuba. La National Review riuscì a vendere più ristampe.

Uno dei motivi per cui Buckley riusciva a valutare Castro con sicurezza era che era cresciuto sentendo storie di rivoluzionari latinoamericani che si rivelavano essere banditi assassini. Suo padre aveva perso la sua prima fortuna e rischiato la vita nel tentativo di rovesciare i protocastristi in Messico. La preoccupazione principale, aveva detto W. F. Buckley senior al suo contatto nell’Amministrazione Wilson, il colonnello Edward House, nel 1913, era che gli Stati Uniti proteggessero gli interessi degli investitori americani e degli espatriati che vivevano in Messico.

 

                

 

Mezzo secolo dopo, il presidente Kennedy dovrebbe fare lo stesso a Cuba, esortava Bill Buckley. “La risposta alla minaccia di Castro”, scrisse sulla National Review, “è eliminare Castro. La risposta a coloro che espropriano le proprietà americane è una: la rappresaglia rapida e decisa... Bisogna molto semplicemente dire ai latinoamericani che gli americani non rinunceranno alla loro sicurezza e alla loro libertà per rispettare il diritto di Cuba di impazzire e di costruire basi missilistiche per il nemico [sovietico]; e no, nemmeno per assecondare la rivoluzione con crescenti aspettative [e] che non potranno venir fuori le assurdità del comunismo internazionale, nemmeno attirando a sud il capitale americano per poi espropriarlo”.

Buckley scrisse queste parole nel luglio 1960. Già si speculava sul fatto che Cuba avrebbe ricevuto spedizioni di rampe di lancio e razzi sovietici, o per fortificare le difese cubane contro l’invasione statunitense o per costituire una minaccia preventiva – nessuno poteva dirlo. Kruscev se lo aspettava. “Se un quarto o anche un decimo dei nostri impianti fossero lasciati [intatti]”, ragionò, “anche se ne rimanessero solo una o due grandi, potremmo comunque colpire New York, e non rimarrebbe molto di New York”.

John Kennedy era entrato in carica promettendo di fare qualcosa contro Castro. Nel suo quarto e ultimo dibattito televisivo con Nixon aveva accusato l’Amministrazione Eisenhower di non fare abbastanza. In realtà l’Amministrazione stava elaborando piani segreti per rimuovere Castro. A Nixon, che era stato informato dei piani, fu intimato di tacere. Anche Kennedy era stato informato, ma si sentì libero di attaccare comunque l’Amministrazione – un trucco da dibattito che Nixon non perdonò né dimenticò. 

Nel 1961, il complotto anticastrista divenne prerogativa dell’Amministrazione Kennedy, con la Cia al comando. Il 17 aprile 1961, una brigata di 1.400 esuli anticastristi si imbarcò su navi mercantili noleggiate dalla Cia ed effettuò un rischioso sbarco anfibio notturno in un’insenatura del Golfo, la Bahía de Cochinos, la Baia dei Porci. Le truppe di Castro sopraffecero rapidamente gli invasori, uccidendone più di un centinaio, ferendone il triplo e catturandone 1.200. Castro sapeva già cosa stava per accadere, e così molti altri. I dettagli dell’invasione erano trapelati al New York Times, che aveva pubblicato un articolo in prima pagina dieci giorni prima dello sbarco. Fu un fallimento scioccante, e per la brigata di esuli un tradimento quando il supporto aereo statunitense promesso non arrivò a salvarli.

Anche quello era stato un pasticcio. Un attacco aereo dal Nicaragua, prima dell’invasione, avrebbe dovuto distruggere la flotta aerea cubana, ma i bombardieri mancarono il bersaglio e le foto rivelarono che gli aerei non erano nicaraguensi ma statunitensi maldestramente dipinti. Il presidente Kennedy annullò il secondo attacco previsto. Il pasticcio fu epico e la risposta di Buckley fu la cupa ilarità di un uomo di Yale. Il contingente di Cambridge di Kennedy aveva un gran bisogno di aiuto. “Forse Harvard aggiungerà al curriculum uno o due corsi sulle invasioni anfibie”, scrisse Bill sulla National Review.

In realtà i principali pasticcioni erano uomini di Yale. Il progettista originale era Richard Bissell, allievo di Ed Pulling a Groton, che era diventato quasi leggendario come responsabile del progetto del miracoloso aereo ad alta quota U-2 della Cia e del primo satellite spia in orbita. Un altro uomo di Groton-Yale, Tracy Barnes, supervisionò il reclutamento degli agenti, che includevano il buon amico di Bill Buckley (e alunno della Brown) Howard Hunt. Sia Bissell sia Barnes furono incolpati del fallimento. Howard, che era stato estromesso dall’operazione poco prima dello sbarco degli esuli, fu risparmiato dalla censura, ma la sua reputazione fu irrimediabilmente danneggiata e la sua carriera quasi finì lì.

I restanti due anni e mezzo di politica estera di Kennedy sarebbero stati ricalibrati per reagire, e a volte per sovracompensare, questo errore iniziale. Ciò alimentò anche il sospetto di Kruscev che il presidente americano non fosse all’altezza del compito. A Kruscev piaceva Castro – lo aveva abbracciato calorosamente in un hotel di Harlem nel 1960, quando entrambi si trovavano a New York per parlare alle Nazioni Unite – ma si meravigliava anche dell’indulgenza di Kennedy nei confronti di questa piccola nazione irritante all’interno del suo perimetro imperiale. Quando erano nate delle insurrezioni nei satelliti sovietici di Ungheria e Polonia, Kruscev non aveva esitato a inviare i carri armati nelle strade di Budapest e Pozna. Si aspettava che gli Stati Uniti facessero lo stesso a Cuba. Invece Kennedy era rimasto a guardare, la stessa accusa che aveva mosso a Eisenhower, mentre Castro diventava sempre più forte e sicuro di sé. “Quando alla fine arrivò la Baia dei Porci”, scrive William Taubman nella sua biografia di Kruscev, “non fu una sorpresa. Ciò che sorprese fu che Washington inviò esuli cubani invece dei marines, e non riuscì a garantire la loro riuscita”.

Nei primi mesi della presidenza Kennedy, Cuba divenne rapidamente l’emblema di debolezza nel mondo, anche se le condizioni dietro la Cortina di ferro rimanevano tetre. I tedeschi dell’est stavano fuggendo oltre il confine in numeri più alti rispetto ai primi anni della Guerra fredda: 186 mila persone erano fuggite nel 1960; altre 150 mila a metà estate del 1961, e più di 20 mila nel solo mese di giugno. In risposta, Kruscev minacciò di ordinare al governo comunista satellite della Germania est di fermarli. Quando, nell’agosto del 1961, altri 1.900 rifugiati entrarono in Germania ovest, i tedeschi dell’est eressero un muro di cemento alto quasi 12 metri, con guardie armate, mitragliatrici legate alla schiena e in cima alle torri, simili ai guardiani dei campi di concentramento. La città era diventata una prigione di massima sicurezza e le colonne neoclassiche e il frontone della Porta di Brandeburgo erano il suo ingresso chiuso a chiave, che separava l’est dall’ovest.

E cosa stavano facendo esattamente gli Stati Uniti? Poco o nulla. E’ evidente che si tratta di un complotto comunista, disse Robert Welch. No, disse Bill Buckley. Meglio definirlo un complotto liberale. Invitato dal governo di Taiwan a tenere una conferenza presso il ministero della Difesa nazionale nel novembre 1961, Buckley disse ai suoi ospiti che gli architetti del fallimento americano non erano agenti comunisti, ma gli “anticomunisti” dell’Amministrazione di Kennedy, consiglieri irrimediabilmente fuorvianti che nel momento critico avevano dissuaso Kennedy dall’inviare la copertura aerea per le brigate anti Castro. Come risultato del “dogma liberale”, scrive Buckley, “Cuba è stata progressivamente totalitarizzata”. I taiwanesi e gli altri amanti della libertà dovrebbero chiedersi non se gli Stati Uniti emanciperanno Formosa dalla minaccia della Cina comunista, ma se Taiwan potrebbe eventualmente “liberare gli Stati Uniti” con il proprio strenuo esempio di resistenza. Discorsi audaci di questo tipo stavano portando il profilo di Buckley, e della National Review, a nuove vette. Giorni dopo, Bill e Pat Buckley entrarono nel loro albergo a Hong Kong – un tour asiatico completo, con una copertura totale delle spese – in occasione del trentaseiesimo compleanno di Bill. Una lettera di Bill Rusher [editore della National Review] li attendeva, con sopra la scritta: “Segreto”. Anche il resto del testo era scritto a mano: nemmeno un dattilografo era stato autorizzato a leggere questa comunicazione prima di Buckley.


(traduzione di Giulio Silvano)