I cubani emigrati protestano contro il regime davanti alla Casa Bianca a Washington (Ansa)

La ricetta sbagliata

Il tramonto di Cuba non ha niente a che fare con l'embargo

Loris Zanatta

Sembra l’alibi perfetto, ma è la zappa sui piedi. E nessun economista serio osa sostenerlo L’unico vero nemico dei cubani e del loro benessere è il regime castrista

A mani nude contro il regime, a volto scoperto contro i caschi neri, soli contro le mazze degli squadristi, “patria e vita” contro gli sbirri del “patria o morte”. C’è qualcosa di tenero e primitivo nella protesta dei cubani, di epico ed elementare. Cos’hanno da perdere? Dignità o disperazione, speranza od incoscienza, chiamatela come volete: sono giovani senza futuro e artisti senza voce, casalinghe in eterna coda e studenti in perenne attesa, pensionati alla fame e lavoratori alla frutta. Sudditi sacrificati al regno, cittadini senza cittadinanza, fedeli senza fede, devoti a forza. 

 

Cuba è un guscio vuoto, uno scenario di cartone, un modello di nulla. È una menzogna coltivata da chi non la patisce: militanti annoiati, intellettuali orfani, politici nostalgici, giovani ignoranti, giornalisti incolti. Tutti armati di biglietto di ritorno, intonano l’immortale hit: che la sanità è eccellente, che la scuola è gratis, che lo sport è un crack, che come sono uguali e felici, che buono il mojito, che fresca l’aragosta. Come i treni in orario del fascismo, la piena occupazione del nazismo, il grande salto in avanti del maoismo. Mi ricordano mio padre di ritorno dalla Piazza Rossa: aveva visto i missili nucleari, era felice come un bambino. I russi? Come i cubani: di cosa si lamentano? 

 

La realtà è prosaica per chi cerca favole, i mezzi sono sempre leciti per chi è votato a grandi fini. “Vivrete in Paradiso”, promise Fidel Castro. Che saranno mai i plotoni d’esecuzione, i campi di rieducazione, le assemblee di morale comunista, il razionamento a vita, le spie di quartiere, il catechismo alla tv? È inutile svelare i segreti di Pulcinella a chi non li vuole sapere. Spiegare che l’eccellenza sanitaria è per i mandarini del partito e gli stranieri che pagano in valuta; che il cubano medio ha ospedali sporchi e farmacie vuote, che un “regalito” è prassi per prenotare esami e saltare code. Raccontare che diserzione scolastica e pessima didattica sono piaghe antiche, che l’istruzione costò decenni di lavoro “volontario per forza”, che i dirigenti fanno studiare i figli all’estero. I salari? Pochi spiccioli, inutili al mercato nero, l’unico colmo di beni, oasi di “capitalismo selvaggio”. Il cibo? Sette ore al giorno per procacciarlo e cucinarlo, misurate dagli antropologi, tra risse ai mercati e cronici blackout. I trasporti? Così viaggia il bestiame. L’uguaglianza? Lasciamo stare. La tessera del partito o un familiare all’estero sono ascensori per il cielo. Agli altri gli inferi della carità di Stato, l’orco filantropico che tiene il guinzaglio. Nel 1958 Cuba aveva un reddito pro capite pari a quello italiano, superiore al giapponese, doppio dello spagnolo. Importava gli immigrati che oggi esporta. Era ingiusta e sviluppata male, ma prometteva bene. 

 

Oggi neppure. Il denaro non fa la felicità, dice chi ce l’ha. Però ha il vaccino, gonfiano il petto i creduloni. Contenti loro. L’etica della convinzione è più comoda dell’etica della responsabilità. Lo scambierebbero con Pfizer? La sua efficacia è quella che è, la diffusione pure, difatti la pandemia picchia duro. Il massimo della sovranità simbolica, pane e circo, produce il minimo di sovranità effettiva. Cuba ha bisogno di tutto. Di che stupirsi? A suo tempo annunciò la cura dell’Aids, la “soluzione finale” contro il cancro, altri miracoli ancora. Non pervenuti. Ne uscì però un potente afrodisiaco: meglio di niente. L’unico vero primato cubano, giusto riconoscerlo, è la scienza della repressione: scuola Stasi, medaglia d’oro.

 

Colpa dell’embargo, s’alza a questo punto il coro, dall’artigiano in viaggio premio al turista sessuale, dal magazziniere innamorato di un’amata mossa dal bisogno all’imprenditore attratto dalle maestranze mansuete. Sembra l’alibi perfetto, ma è la zappa sui piedi. Nessun economista serio osa sostenerlo. “Non possiamo sempre dare la colpa all’embargo”, si sfogava Fidel. Liberi dal dominio imperialista e dallo sfruttamento capitalista, promise, padroni dei nostri beni e del nostro destino, saremo il paese più ricco al mondo! Testuale. La ricetta? Profetismo marxista e millenarismo cristiano, pianificazione statale e crociata contro la proprietà. Bando al mercato, peccato sociale! Bando al denaro, sterco del diavolo! Ha raccolto quel che ha seminato. 

 

Non fosse tragica, la storia economica cubana sarebbe comica, tale è lo scarto tra proclami e risultati, profezie ed esiti. Lamentarsi dell’embargo, celebrato quando fu emanato, esibito come un vanto, sfida buon senso e buon gusto, è prendersela con lo specchio su cui s’è sputato. Cuba può commerciare con chi vuole. Il problema è che per comprare servono dollari, per avere dollari bisogna esportare, per esportare occorre produrre. Undici milioni di cubani sull’isola producono poco o nulla, a differenza dei tre milioni di espatriati. Che la ricetta fosse sbagliata?            

 

L’embargo non c’entra nulla col destino di Cuba, l’autoritarismo del regime, la miseria che l’assedia, la rabbia che esplode. Sono tutti farina del sacco cubano, della sua storia. Come potrebbe essere altrimenti? Se togliessimo gli occhiali coloniali della guerra fredda, vedremmo che la rivoluzione cubana fu la rivincita dell’Oriente rurale e religioso dell’isola sull’Occidente urbano e secolare, la vendetta del retaggio ispanico contro la modernità anglosassone. C’era un volta un popolo puro, recita il libretto, il contadino “nato in un presepe come Gesù”, Fidel dixit. Ma ecco la sua purezza inquinata dall’individualismo liberale e dall’egoismo capitalista, frutti avvelenati del protestantesimo statunitense. Fino alla redenzione, all’avvento del Messia dalla lunga barba e dalla formazione gesuita che liberò il popolo per condurlo alla terra promessa. Una parabola biblica.  

 

Il comunismo castrista incarnò l’utopia del Regno di Dio in terra. Un Regno dove il futuro ideale è un ritorno al passato ideale, a un popolo mitico di pace ed armonia, previa espiazione dei peccati e depurazione della storia. E poiché ognuno edifica la sua storia coi materiali del suo passato, è comprensibile che riproduca i tratti della cristianità ispanica che per secoli plasmò Cuba, dell’ordine sacerdotale e militare dei Re cattolici eroso dalla civiltà commerciale e secolare che cresceva nell’Europa protestante.

 

I tratti del regime cubano sono, adeguati all’età delle masse, quelli che l’Impero spagnolo ebbe nell’età del sacro. L’unanimismo, innanzitutto, la fusione di politica e fede. Così come il suddito di Sua Maestà era perciò stesso figlio di Santa Madre Chiesa e come al cacciare i mori la Spagna cattolica cacciò anche gli ebrei per ottenere la “purezza di sangue”, allo stesso modo il regime cubano esige l’unità di fede politica, pena l’espulsione o la conversione, il castigo o l’ostracismo. Su tale fusione poggia l’architettura del regime: il partito unico e l’unità dei poteri. Qui non entrerà mai, ammonì Fidel, “la famosa separazione dei poteri del famoso Montesquieu”. Una delle poche promesse compiute: ein volk, ein heimat, ein führer.

 

Il secondo tratto è la gerarchia. Come la cristianità spagnola, creata ad immagine di un organismo vivente, esprimeva una gerarchia di funzioni, dalla testa coronata al più umile dei sudditi, così il potere fluisce nel castrismo dall’alto al basso e dal centro alla periferia. Un viaggio di sola andata. Il regime franchista, a sua volta erede di quel modello, si definiva “organico, gerarchico e funzionale”. È la definizione che più s’attaglia a quello cubano.

 

Il terzo tratto è il corporativismo. Come le società d’ancièn régime, quella cubana è una società di corpi. “No se puede vivir por la libre”, sentenziò Fidel, “tutti dobbiamo essere qualcosa di qualcosa”. Da ciò le “organizzazioni di massa”, organi totalitari cui nessuno sfugge, bambini e lavoratori, donne e artisti, sportivi e impiegati. Per esse passano i servizi dello Stato, gli unici ammessi. Sottrarsi è un suicidio, si china il capo e s’ingoia. L’ordine nuovo della rivoluzione cubana è copia della società cetuale del passato, un ordine senza individui. Salvo che ai privilegi basati sulla nascita sostituisce quelli fondati sulla fedeltà al partito. Va da sé che la mobilità sociale sia scarsa, che dipenda dal conformismo non dal talento, dall’obbedienza non dalla creatività.

 

Il quarto tratto è lo Stato etico. Come la Provvidenza poneva in mano ai Re spagnoli la croce per evangelizzare i pagani e la spada per stroncare l’eresia, così le “leggi della storia” indicano al castrismo la via della salvezza. E così come a tal fine quelli usavano il potere dello Stato, così fa esso in caserme ed ospedali, radio e campi sportivi, giornali e concerti, luoghi d’apostolato, strumenti di catechesi. Specie la scuola: quella “borghese”, diceva Fidel, insegna cose diverse e confonde le menti; quella cubana soltanto la verità, la sua. Degno erede degli Stati confessionali, lo Stato cubano pontifica e censura, benedice e scomunica.

 

Infine l’ultimo tratto del regime: nato annunciando benessere e prosperità ha finito per celebrare la Santa Povertà, garanzia di innocenza e moralità del popolo. Il povero è così diventato archetipo di santità, il buon selvaggio modello del buon rivoluzionario. L’ideale per giustificare i fallimenti economici. Per perpetuare la dipendenza dal regime: privo di autonomia personale, il povero è un eterno minore bisognoso del suo peloso abbraccio. L’imperativo di combattere la ricchezza ha vinto quello di estirpare la povertà. Cinico ma coerente.        

 

E ora? Se così stanno le cose, se questo è il contesto, cos’aspettarsi dall’ondata di proteste in corso? A rigore nulla, poiché nulla è più statico di un ordine totalitario, più conservatore di un regime rivoluzionario. Mentre le democrazie avanzano a zigzag tra crisi e riprese, errori e correzioni, le rivoluzioni sono irreversibili, come recita la Costituzione cubana. Non si abbandona il paradiso! Non si riforma una Chiesa! E se accade si chiama scisma. Perciò Fidel non voleva sentir parlare di “transizione”, perciò Díaz-Canel minaccia morte e violenza: “dovrete passare sul nostro cadavere”. Non c’è stata crisi che il castrismo non abbia metabolizzato. Perché dovrebbe cadere chi possiede tutte le risorse del potere? Chi mai può causarne il collasso? 

 

Eppure c’è un’aria nuova, stavolta. Meno paura e più determinazione, più consapevolezza e meno rassegnazione. Pochi un tempo pensavano di cambiare regime, i più sognavano di fuggire. Oggi lo affrontano di petto e la fuga di massa non è un’opzione. Difficile dire se basterà a incrinarlo, ad aprire un cuneo negli opachi ranghi del partito e delle forze armate. Gli ultimi che provarono a farlo, correvano gli anni Ottanta, finirono fucilati. Ma erano altri tempi e Fidel Castro regnava sovrano. Oggi nessuno crede più ai rituali del regime. Le sue pompose liturgie danno la nausea, i vacui slogan comunisti causano rigetto, l’abuso di patriottismo indigna. Basta bugie, basta promesse, basta privilegi, corre la voce. La storia cacciata dalla porta rientra dalla finestra, le armi comprate per reprimere potrebbero rimanere nelle fondine. Liberarsi costa, ma ne vale la pena. 
 

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