Keir Starmer - foto GettyImages

Confronti

Lampi di sinistra liberale. Storia delle leadership di Starmer e Glucksmann

Devono fare i conti con le macerie di sconfitte elettorali impietose dei loro partiti e con forze interne e contigue che hanno spinto la sinistra verso il suo estremo, lontano dal centro e lontano dal consenso

Paola Peduzzi

Uno, nel Regno Unito, ha restaurato il Labour rendendo irrilevante l’ala più radicale. L'altro, in Francia, ha ricostruito uno spazio al Partito socialista. Il riformismo da dentro e da fuori

Sono arrivati piano, camminando sulle macerie, uno idealista, l’altro pragmatico, uno nel cuore dell’Europa e l’altro appena fuori, due uomini diversissimi che si sono ritrovati a maneggiare la stessa materia incandescente – la ricostruzione di un partito di sinistra – e che ora hanno di fronte il confronto più importante: quello con gli elettori. Keir Starmer e Raphaël Glucksmann, il leader del Labour britannico e il capolista del Partito socialista francese alle elezioni europee, non hanno nulla in comune se non la determinazione a trovare spazio, a sportellate se necessario, a un’idea di sinistra moderata, liberale, proiettata verso il futuro, antitotalitaria. Spensierata verrebbe da dire, perché costruita non tanto e non solo in alternativa a qualcosa, ma in vista di qualcosa, con la convinzione di trovarsi davanti a un inizio. Siamo alla fine di tutto o siamo di fronte alla possibilità di un rinnovamento?, chiede spesso Glucksmann al suo pubblico e ai suoi rivali, togliendo la polvere dalla casa in cui ha deciso di abitare, quella diroccata del socialismo francese: lui parla di Europa, il suo terreno di gioco, un lusso che Starmer ovviamente non si può concedere, visto che è assai più conveniente, per lui come per i conservatori suoi avversarsi, sorvolare sulla questione che più ha spaccato e infine imbalsamato il Regno Unito dell’ultimo decennio. Glucksmann parla di Europa ai francesi, Starmer parla del suo paese ai britannici,  entrambi devono fare i conti con le macerie di sconfitte elettorali impietose nel passato recente dei loro partiti e con forze interne e contigue che hanno spinto la sinistra verso il suo estremo, lontano dal centro e  lontano dal consenso. Hanno storie, esperienze e metodi diversi, ma  rappresentano la stessa cosa: un lampo liberale, a sinistra.


Rishi Sunak, premier conservatore britannico, ha annunciato la scorsa settimana la data delle elezioni nel Regno Unito con il tradizionale discorso davanti alla porta del numero di 10 di Downing Street, la residenza dei premier. Sunak era andato da re Carlo, gli aveva detto che aveva intenzione di sciogliere il Parlamento e di fissare il voto il 4 luglio, cioè subitissimo. Quando si è diffusa la notizia e l’annuncio ufficiale non c’era ancora, molti si sono convinti che fosse una bufala: non è possibile, non può essere così disperato, il Labour di Starmer è davanti di venti punti percentuali, tanto vale invitarlo a cena, lasciarlo direttamente a Downing Street, e trasferirsi in un altro continente. Poi Sunak si è presentato davanti alle telecamere e ha confermato: 4 luglio. Ha iniziato a delineare i temi della campagna elettorale dei Tory, con la serietà che gli è propria e con la solennità richiesta da questo rituale democratico, ma avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, persino rimangiarsi la data efferata, tanto ormai occhi e orecchie erano distratti: la giacca zuppa, il viso bagnato, le gocce impigliate nelle ciglia, una musica che si mischiava al rumore della pioggia e alle parole del premier fino a superarle e che a un tratto è diventata riconoscibile, anzi riconoscibilissima: era “Things can only get better”, che è una canzone diventata  politicamente celebre nel 1997 in quanto colonna sonora della prima, entusiasmante vittoria a valanga del New Labour di Tony Blair


La musica non era stata scelta da Sunak: è sì accusato di aver fatto una scelta sconsiderata da molti parlamentari conservatori che venerdì hanno dovuto impacchettare le loro cose, salutare e lasciare gli uffici (molti non si ricandideranno: gli inglesi adorano le statistiche e dicono che una fuga dal Parlamento così di massa non si vedeva dal 1997), ma non è così autodistruttivo. Le casse erano state piazzate da Steve Bray, un attivista anti Brexit molto creativo, che spiega così la sua scelta: “Non l’ho fatto per il Labour, ho soltanto scelto la canzone che potesse trollare in modo plateale i Tory”. In ogni caso, è iniziata così la campagna elettorale che potrebbe mettere fine a quattordici anni di governo conservatore, un periodo più lungo di quello garantito dal New Labour vincente del 1997.

 
 Come si è capito, per Keir Starmer sei settimane di campagna elettorale sono il tempo ideale. O come dicono quelli che nel 2016, nell’accoppiata micidiale della vittoria della Brexit e della vittoria di Donald Trump contro un’Hillary Clinton che pareva invincibile, hanno imparato a essere pronti a tutto: è un tempo abbastanza breve da non schiantare il grande vantaggio di oggi. Con tutta probabilità Starmer ha già pronto il programma dettagliato giorno per giorno, con le trappole da evitare, le eventuali occasioni da cogliere e il calcetto nel fine settimana. E’ grazie al suo rigore meticoloso che il Labour è rientrato nella carreggiata riformista da cui Jeremy Corbyn lo aveva fatto deviare (l’ex leader del Labour è stato espulso dal partito e si ricandida da indipendente). Sei mesi prima delle elezioni del 2019, in cui il Labour di Corbyn perse malamente, Starmer aveva già messo insieme la sua squadra per la leadership del partito. “Voglio essere nella posizione di poter considerare una mia candidatura, se dovesse esserci un posto vacante”, diceva Starmer, secondo la biografia “Keir Starmer” scritta da Tom Baldwin, che è stato uno dei consiglieri dell’ex leader laburista Ed Miliband. La squadra aveva il nome in codice “Arlington Group”, dal nome della strada in cui abitava uno dei presenti, e si era messa a lavorare con grande anticipo ed estremo dettaglio al piano per convincere i membri del partito a votare Starmer. Si riuniva ogni lunedì, nella cucina di una deputata laburista, ma senza un obiettivo temporale preciso e senza nemmeno la certezza che Starmer, cortese e riservato, volesse davvero arrivare allo scontro diretto con Corbyn. A dare forma e concretezza a questo progetto allora carbonaro fu l’arrivo di Morgan McSweeney, che oggi è direttore della campagna per la premiership: “Tirò fuori le sue slide e iniziò a spiegare in modo esatto come si posizionavano i membri del partito su ogni questione, dove si poteva osare un po’, dove era meglio rimanere cauti, chi era convincibile e chi no. Pazzesco”, ha raccontato un ex consigliere di Starmer. Oggi la scrivania di McSweeney è nel centro dell’open space a due passi dalla Tate che è il quartier generale della campagna – di fianco a quella del coordinatore, Pat McFadden, che è uno dei tanti blairiani presenti nel team elettorale di quest’anno.  

 

Senza Morgan McSweeney forse non ci sarebbe il Labour di Starmer.  Subito dopo le elezioni del 2017 (vinte dai Tory di Theresa May), McSweeney prese la direzione del think tank Labour Together – oggi cruciale per comprendere la strategia di Starmer – che aveva come scopo quello di isolare  la sinistra corbyniana, condizione che riteneva necessaria perché il Labour potesse ambire di tornare al potere. Per due anni McSweeney chiese ossessivamente ai membri del partito di indicargli le caratteristiche che secondo loro dovesse avere un sostituto di Corbyn, insistendo sul fatto che il Labour non fosse, come in realtà sembrava, un’emanazione quasi monolitica della leadership corbyniana. In questa ricerca infine McSweeney s’imbatté in Starmer, che era ministro ombra nel governo di Corbyn (si occupava della Brexit) e che lì sarebbe rimasto fino alla sconfitta dell’inverno del 2019.


McSweeney era convinto che il Labour dovesse essere riformato da dentro e che le tentazioni di scissione fossero deleterie. E’ per questa ragione che molti mettono in contrapposizione McSweeney e Tony Blair, che invece negli anni post referendum sulla Brexit e di leadership corbyniana si era rassegnato al fatto che il suo partito non fosse più salvabile e che fosse meglio sospendere l’accanimento e radunare altrove, in un nuovo partito, i moderati, in dialogo con i liberaldemocratici. Erano gli anni dell’ascesa in Francia di Emmanuel Macron e l’idea di un “centro radicale” che strappasse elettori da destra e sinistra era diventata clamorosamente attuabile. Nel settembre del 2018 alcuni finanziatori del Labour si trovarono in mano un dossier di 72 pagine dal titolo “Political Movement, Planning Document”. Non c’erano i nomi degli autori, era stato presentato come un progetto dei moderati laburisti e diceva: “Il Regno Unito è impantanato. E’ stata violata la promessa generazionale secondo cui i figli staranno meglio dei loro genitori. La disuguaglianza è in aumento, le case sono troppo costose, i redditi sono bloccati e la qualità del lavoro è troppo scarsa per troppe persone. Il mondo sta cambiando velocemente e noi ci stiamo ritirando. La vecchia divisione sinistra-destra non può più fornire una piattaforma che soddisfi le sfide di oggi o del futuro”. Il documento arrivò anche a Labour Together e nei due anni successivi McSweeney passò molto del suo tempo a cercare di convincere gli investitori del Labour a boicottare i tentativi di formare una nuova forza politica: la più grande forza progressista del paese va salvata, non fatta in tanti piccoli pezzi che nelle urne non conteranno nulla, ripeteva. Gran parte delle chiacchiere sul presunto conflitto tra McSweeney e Tony Blair – e quindi sul rapporto tra Starmer e l’ex premier – nasce da questa divergenza di fondo: è riformabile, il Labour? Qualche giorno fa, il nuovo direttore di Labour Together, Josh Simons, ha scritto: a guardare come stanno andando Starmer e il partito, avevamo ragione noi. 

 

Raphaël Glucksmann ha fondato Place publique nel novembre del 2018, lo ha apparentato alla sinistra per le europee dell’anno successivo ed è stato eletto eurodeputato. Place publique era l’espressione del disamore che Glucksmann aveva accumulato nel confronti di Emmanuel Macron, il presidente della marcia dei cittadini e dell’abilità nello scardinare il dualismo destra-sinistra. L’operazione di Macron, nel 2016 dell’azzardo di En Marche e poi nel 2017 della vittoria presidenziale, aveva affascinato molto Glucksmann, che allora era un giornalista, saggista e documentarista che preferiva andare a manifestare con i georgiani contro l’invasione di Vladimir Putin nel 2008 e con gli ucraini contro l’invasione di Vladimir Putin nel 2014 piuttosto che protestare a Parigi per le pensioni. Figlio del nouveau philosophe André Glucksmann e di Françoise detta Fanfan, scomparsa lo scorso agosto, Raphaël è cresciuto nel mondo intellettuale parigino e con l’esempio combattivo antitotalitario dei suoi genitori – “lo spirito della resistenza”, lo sintetizza quando parla della sua formazione familiare.


Glucksmann era stato un sostenitore della marcia macroniana, ma come gran parte degli ammiratori del presidente che provenivano dalla metà a sinistra del progetto di rassemblement, si era presto trovato a disagio. E’ stato soprattutto il tema dell’immigrazione, che Macron ha affrontato con metodi duri, ad allontanare Glucksmann, il quale nel frattempo ha maturato l’idea di passare dall’attivismo e dalle piazze dell’est europeo alla politica francese. Ma con chi? Il macronismo ha assorbito i partiti moderati di sinistra e di destra, il Partito socialista in particolare se l’è passata molto peggio rispetto ai Républicains, ma insomma il ridimensionamento ha riguardato tutti, a vantaggio degli estremi: il Rassemblement national di Marine Le Pen a destra e la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon a sinistra. Quando lo scossone macroniano si è assestato, lo spazio che prima era occupato dal Partito socialista ha iniziato a farsi un pochino più visibile, ed è lì che Glucksmann si è collocato: “Dobbiamo far crollare i muri ed espandere il piccolo spazio in cui siamo rimasti soffocati, in mezzo tra Macron e Mélenchon”. Così è riuscito a mettersi a capo della lista di sinistra moderata per le elezioni europee e quando si è discusso di una coalizione unica con il Nupes, la formazione guidata da Mélenchon, Glucksmann ha detto: no. “C’è una sinistra europeista in Francia che non è scomparsa e che è stata a lungo dominante – ha detto il candidato in un’intervista al Financial Times – e il mio lavoro è di difendere con orgoglio questa linea di demarcazione senza compromessi e senza esitazioni. C’è una sinistra in Francia che crede nella giustizia sociale, nella transizione ecologica, nella difesa della democrazia e nella resistenza contro i regimi autoritari”. Il primo maggio scorso, Glucksmann stava andando a una manifestazione a Saint-Etienne, ma è stato costretto ad andare via da un gruppo che ha iniziato a gridargli “Fuori di qui”, “la Palestina sarà libera”, lanciandogli addosso vernice e oggetti. Fino a quel momento, l’eurodeputato aveva cercato di non rispondere alle tante provocazioni che gli arrivavano dalla sinistra estremista: noi vogliamo battere la destra e Macron, diceva. Dopo il primo maggio, ha preso atto che i mélenchoniani considerano più urgente annientare la sinistra moderata che l’estremismo di destra: nei sondaggi, il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella è ampiamente il primo partito, ha un consenso attorno al 30 per cento, quasi il doppio del partito macroniano.

 

 

Anche dalle parti del presidente, c’è stato un errore di sottovalutazione: il Monde ha raccontato che quando la candidatura di Glucksmann ha preso forma incuneandosi tra Macron e Mélenchon, lo stesso presidente ha adottato la strategia “on l’ignore”, lo ignoriamo. Non è stata una buona idea: ben presto è iniziata la lotta per il secondo posto alle europee, che in questo momento sembra pendere verso Renaissance al 16 per cento contro il 14 di Ps-Place Publique. Ma è dal punto di vista delle idee, più che da quello del posizionamento, che l’arrivo di Glucksmann ha cambiato un po’ di cose. 


L’eurodeputato aveva detto ad aprile a un incontro pubblico che voleva “riprendere la bandiera europea dalle mani di Emmanuel Macron” e alla fine di quel mese, giusto prima del sontuoso discorso del presidente alla Sorbonne (il secondo, dopo quello molto più idealista del 2017), Glucksmann ha lanciato il suo manifesto, “Costruire l’Europa del 2030”, che comincia con la domanda: siamo alla fine o siamo all’inizio? Siamo al rinnovamento o al crollo dell’Europa? Non stupisce il fatto che alcuni concetti di Macron e Glucksmann siano pressoché identici, soprattutto per quel che riguarda i pericoli di spinte illiberali dentro e fuori l’Unione europea che mettono in pericolo il suo funzionamento e quindi la sua esistenza, ma poi Glucksmann, nel delineare un’Europa che “deve diventare adulta” per poter governare un “secolo europeo”, passa dalla potenza “sovrana” che si concentra sulla difesa propria e dei suoi paesi alleati a est, alla potenza solidale, ecologica, aperta, accogliente nei confronti dell’immigrazione. La sinistra che immagina Glucksmann è fortemente europeista ma non si concentra soltanto sulle libertà economiche, ma anche su quelle sociali e ha un tono che, in alcuni tratti, ricorda il “centro radicale” introdotto dal blairismo dell’ultimo decennio: “L’Unione europea è stata a lungo guidata da democratici de confort, ma ha bisogno di democratici de combat”. 

 

Tom Baldwin dice di Keir Starmer che è “allo stesso tempo straordinario e molto ordinario” e che è in questa tensione che si riesce a comprendere il leader del Labour. Il suo amore per la normalità, per la vita familiare – sua moglie Victoria, che sembra ancora più schiva di lui, e i due figli adolescenti – e per le partite di calcio nel fine settimana è genuino: molti politici costruiscono un’immagine “popolare” da zero, per sembrare accessibili e assecondare l’equivoco del leader-che-è-uno-di-noi, mentre Starmer è e vuole essere un professionista, “la persona meno politica che conosca nella politica”, dice la sua vice Angela Rayner. Per quanto sia una scelta per Starmer naturale, ha un costo in termini di carisma: pur avendo riportato il Labour a consensi alti e con una concreta possibilità di tornare al potere, il leader del Labour non è uno che scalda i cuori. Baldwin scrive: “Starmer riconosce che apparire come un tecnocrate diligente ha contribuito a rassicurare gli elettori, ma sa anche che questo è un ostacolo per la prossima fase: dare agli inglesi un motivo per andare a votare laburista”. Poiché tutto il calcolo del partito si fonda sullo swing, cioè sulla capacità di portare gli elettori moderati che hanno votato per i Tory nel 2019 (in massa, fu una vittoria storica) a scegliere il Labour, la persuasione è determinante (c’è bisogno di uno swing molto corposo per ottenere una maggioranza sostanziosa in Parlamento). 


Starmer prova a praticarla in due modi: facendo il “family man” e muovendosi cauto (poiché i commentatori britannici hanno un termine per tutto, la cautela è diventata “la strategia del vaso Ming”). Nella formazione di Starmer c’è un padre brusco e freddo, che si prendeva cura della famiglia ma senza mai un abbraccio: erano anche anni di ristrettezze economiche, di letti a castello in stanze minuscole, di vetri rotti da una pallonata mai sistemati. E della malattia della mamma Jo, che invece era calorosa e affettuosa, ma che a causa di una malattia rara che colpisce gli arti e le giunture è stata costretta sulla sedia a rotelle (è morta due mesi prima che il figlio fosse eletto ai Comuni, nel 2015). “Quando ero ragazzo, passavo moltissimo tempo in ospedale con mia madre – ha raccontato Starmer – Osservare tutti quei medici e infermieri salvarle molte volte la vita è stata un’esperienza incredibile”. I figli di Starmer non hanno mai sentito la voce della nonna Jo, perché da molti anni oltre la mobilità aveva perso anche la possibilità di comunicare. Il leader del Labour dice che ha imparato da sua madre che ci si può prendere cura degli altri in tanti modi e che per resistere e per andare avanti bisogno essere molto concreti. Anche per questo se è difficile trovare un percorso ideologico nella storia di Starmer – ancora adesso molti chiedono: in che cosa crede il leader del Labour? – si riconosce già nei suoi primi anni da avvocato un sistema di valori solido, che è poi la ragione per cui l’immagine di “family man” risulta credibile e per nulla artefatta. 


L’approccio schivo e professionale alla vita politica ha permesso a Starmer di fare l’impensabile, cioè scardinare gli ideologi corbyniani e allontanarli dal Labour. Quando fu eletto dalla base del partito, iniziavano le chiusure per la pandemia di coronavirus, così per molto tempo Starmer è rimasto un viso dentro a uno schermo, dal momento che gli incontri pubblici rimasero a lungo vietati. Questo naturalmente non aiutava a scaldare la sua immagine di ex avvocato abbastanza pratico di mondo da riuscire a passare da ministro ombra di Corbyn a leader che ha scalzato Corbyn: qualcuno disse allora che Starmer era come una badante che arriva ad accompagnare un malato (il Labour) nella fase del declino. L’aria professorale – Starmer è uno di quegli uomini che vestito casual sta sempre male – si è rivelata il velo dietro cui avviare un’operazione di pulizia ideologica tra le più brutali mai viste: pareva innocuo, il nuovo leader, un traghettatore in attesa di un capo carismatico cui aggrapparsi per rinascere, e invece ha levato di torno corbynisti, antisemiti, estremisti, ideologhi in camicia a fiori e sindacalisti. Lentamente ma con metodo efferato, via via tutto il mondo portato da Jeremy Corbyn nel Labour è stato isolato e allontanato, mentre quelli come Starmer, che è stato a lungo guardato con sospetto perché aveva lavorato a stretto contatto con Corbyn, sono diventati architetti, assieme a lui, di una restaurazione moderata. Il leader del Labour ha fatto i conti con tutti, anche con il passato, e quando è comparso l’anno scorso su un palco assieme a Tony Blair s’è capito che oltre ai conti, Starmer era riuscito anche a farci la pace, con il passato. 


Ora questa operazione che passa sotto il nome di “starmerismo” e che più che una dottrina è un metodo sarà giudicata dagli elettori. Le critiche dall’ala sinistra del partito continuano a essere tante e a Starmer viene già imputato l’errore di aver scelto di ricostruire una “big tent” verso il centro ignorando gli elettori più a sinistra (e i giovani, ai quali tra l’altro Starmer si rivolge con meno enfasi e calore di quello che fa quando parla ai più anziani). Il rischio c’è, anche perché il bottino da strappare ai Tory deve essere molto grande per risultare significativo, ed è forse per questo che s’è scelta la strategia del vaso Ming, che si traduce in: fare meno danni possibile. L’Economist ha pubblicato un articolo il cui sottotitolo è: “Quante possibilità ci sono che il Labour possa sprecare questa grande opportunità?”. Il modello elaborato dal magazine britannico dà una maggioranza enorme al Labour (112 seggi) e meno dell’1 per cento di probabilità di maggioranza per i Tory, ma “l’atteggiamento del Labour è poco baldanzoso e semmai è più grande la paura di farsi scivolare la vittoria dalle mani”. Tra sicurezza di vincere e cautela, l’Economist suggerisce la seconda, e anche Starmer e i suoi hanno deciso di non stravolgere l’immagine che hanno comunicato finora: se vittoria sarà, sarà più di testa che di cuore.

 

 

Nel 2015, quando aveva 35 anni ed era appena rientrato da Kyiv dove aveva partecipato alle proteste dell’EuroMaidan, Raphaël Glucksmann pubblicò “Génération gueule de bois”, generazione post sbronza, “un manuale di lotta contro i reazionari”, in cui scriveva: “La Georgia ieri e l’Ucraina oggi sono più che degli stati, sono diventate delle idee: l’idea che la nostra regione sia europea e che la libertà può trionfarvi, l’idea che noi apparteniamo all’Europa dell’Illuminismo e non all’Eurasia di Vladimir Putin, l’idea che la democrazia sia universale e che non abbia né frontiera né carta di identità. Siamo tutti europei, dunque siamo tutti ucraini”. Nel 2008, Glucksmann era andato a Tbilisi, dopo che Putin aveva invaso l’Ossezia del sud e l’Abkhazia (che rappresentano il 20 per cento del territorio georgiano e sono tuttora occupate) e per molto tempo aveva lavorato con Mikhail Saakashvili per la costruzione di una nuova Georgia che divenne presto il modello di una trasformazione possibile – un sogno interrotto dalla sconfitta elettorale e dall’ascesa del partito Sogno georgiano che ancora oggi guida il paese: “Un’elezione che non potevamo perdere”, l’ha definita Glucksmann, eppure. A Tbilisi Glucksmann aveva sposato Eka Zgouladze, ministra dell’Interno che azzerò la polizia sovietica in poco tempo e che poi fu chiamata in Ucraina per fare lo stesso: si sono separati, hanno un figlio che da piccolo diceva che i suoi genitori di mestiere “fanno la rivoluzione”. 


Quando si dice che la leadership di Glucksmann è idealista e romantica si fa riferimento a questa sua ispirazione familiar-attivista, antitotalitaria e per un’Europa che allarga a est il suo abbraccio democratico. Negli anni da eurodeputato, Glucksmann si è dedicato a questo obiettivo, denunciando le campagne cinesi contro gli uiguri, lavorando alla commissione che al Parlamento europeo ha costruito un archivio enorme di tutte le operazioni di disinformazione fatte da Russia e Cina nell’Unione europea – lui è vittima privilegiata di molti attacchi personali – e ha cercato di tessere coalizioni trasversali a sostegno dell’Ucraina. 


Questo suo impegno è anche uno degli elementi distintivi nello spettro politico francese e naturalmente nella sfida contro Macron. Il presidente francese si presenta oggi, con il suo programma per la difesa europea, come uno dei più convinti sostenitori dell’Ucraina e dell’invio di armi, ma nel 2022, quando iniziò l’invasione su grande scala delle forze russe, aveva voluto a lungo porsi come mediatore tentando un dialogo con Putin. Glucksmann dice che la lentezza con cui Macron ha compreso la minaccia russa è la ragione per cui oggi gli ucraini si trovano militarmente sguarniti nei confronti dell’esercito russo: “Sono stanco di chi trova piacere nelle proprie parole ma è debole nelle sue azioni”, ha detto il mese scorso in un’intervista. Glucksmann ce l’aveva con i leader europei ritardatari che ancora non hanno avviato le linee di produzione sufficienti per armare gli ucraini, ma anche con Macron, che “ha trascurato Varsavia e Vilnius” perché fa parte di “una vecchia tradizione dell’élite francese che si compiace quando riesce ad avere un rapporto speciale” con i regimi cinese e russo.

 

Conquistare gli elettori di sinistra con il sostegno all’Ucraina è una scommessa che nell’Unione europea non hanno fatto in molti, anzi sono di più le dichiarazioni indifferenti o quelle esplicite per una “pace” che significa arrendersi. Glucksmann è convinto che l’amore per la democrazia, per i nostri valori, per il sogno di un’Europa adulta sia prevalente nella sinistra francese. Gli dicono che è rimasto com’era, un uomo cresciuto nell’idealismo intellettuale senza pratica di mondo, lontano dai problemi che interessano a tutti, più forte sui social e nei centri metropolitani che altrove. Lui aspetta la conta finale, e intanto rinfaccia a tutti, destra e centro, ma anche a molta sinistra, di non aver compreso le minacce esistenziali dell’occidente né quanto lugubre ma determinato sia al contrario il progetto dei regimi autocratici. Nel 2011 Glucksmann scrisse un biglietto a suo padre in cui diceva che la cosa che più ammirava in lui, e che sperava di sapere replicare nel suo lavoro al confine tra il racconto, la testimonianza e la politica, era “il rifiuto quasi fisico di confondere l’oggettività con la neutralità”.
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi