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da pechino a bruxelles

L'industria cinese spiega alcune fragilità europee

Giorgio Arfaras

L’overcapacity della Cina ha a che fare di più con la politica che con l’economia. Il consumo individuale e lo stato sociale. Ma manca il demos europeo

Negli ultimi tempi si ha un gran dibattere in occidente intorno al possibile dilagare delle esportazioni cinesi, del perché ciò possa avvenire e dell’impatto che potrebbe avere. E, se è il caso, di come fermarle. L’opposto di quanto avveniva fino a non molto tempo fa, ai tempi d’oro del neoliberalismo, quando si gioiva per l’apertura della Cina agli investimenti occidentali e per l’apertura dei mercati occidentali ai beni prodotti anche dalle imprese occidentali in Cina

La lettura della vicenda in può essere intrapresa con una duplice argomentazione.

La prima. La Cina è diventata il maggior paese manifatturiero al mondo, ciò che è molto importante ma non decisivo. Non è così importante il gigantesco volume della produzione cinese, quanto la sua composizione. La Cina, infatti, a differenza del passato è ormai presente nelle industrie più sofisticate, quelle dove prevalgono i paesi occidentali e i paesi orientali loro alleati, come il Giappone e la Corea del sud. 
E qui abbiamo il primo nodo da sciogliere. Lasciar penetrare l’industria cinese, che è spinta dall’intervento diretto dello stato che la rende più competitiva di quanto altrimenti sarebbe, potrebbe mettere in crisi i settori occidentali che sono strategici.

La seconda. Da un lato abbiamo il gigantesco sforzo cinese di industrializzarsi in tutti i settori e  di non industrializzarsi in alcuni, quelli in cui gode di un vantaggio comparato. Dall’altro abbiamo la ricerca dell’autosufficienza nelle catene di approvvigionamento in tutti i settori ma senza scegliere la combinazione migliore delle forniture per avere un’industria più efficiente. Questa spinta all’autosufficienza senza promuovere le industrie in cui ha un vantaggio comparato renderebbe la Cina una potenza industriale chiusa salvo nel campo delle importazioni di materie prime agricole e minerarie. E quale può essere lo scopo di chiudersi al commercio internazionale?

E qui arriviamo al secondo nodo da sciogliere. La Cina vuole tornare a essere la massima potenza manifatturiera mondiale quale è stata, e come amano ribadire, fino a un paio di secoli fa. Lo scopo è quello di essere invulnerabile alle eventuali ubbie di dominio delle altre potenze.

Se le cose sono messe in questo modo, abbiamo a che fare con qualcosa più complicata da gestire di una presa di posizione sulle tariffe doganali. Inoltre, abbiamo a che fare con qualche cosa che non può essere affrontata mostrando la poca razionalità dal punto di vista della teoria del commercio internazionale dei comportamenti cinesi.

Detto degli obiettivi si può riflettere sulla difficoltà di ottenerli. In Cina, a differenza di quello occidentale, la domanda interna per consumi è molto modesta. La produzione futura nei nuovi settori dovrebbe perciò trovare uno sbocco importante nella domanda estera. E qui, come abbiamo visto con la prima argomentazione, si ha un problema. Gli altri paesi potrebbero, infatti, non volere contribuire alla crescita cinese nei settori innovativi, perché ciò avverrebbe a danni dei propri.

Perché la Cina per evitare sia il confronto sul commercio internazionale non forza la domanda interna disponendo dei sistemi per incentivare le famiglie al consumo, come avviene con lo stato sociale e i sistemi assicurativi che riducono il risparmio precauzionale, quello volto a far fronte alle avversità? La spiegazione non va cercata nell’economia, ma nella politica: ciò che contribuisce ad alimentare la sicurezza nella popolazione, uno stato sociale e un settore finanziario sofisticato, è compatibile con un sistema a partito unico come quello cinese? 

Il sistema politico ed economico cinese sembra che non possa tollerare la dispersione delle risorse per il consumo individuale. Una caratteristica distintiva di un tale regime è, infatti, la mobilitazione di risorse per la trasformazione sociale ed economica. L’élite cinese è orgogliosa della capacità sua e del sistema di avere creato un miracolo di sviluppo. Ma ciò che andava bene nella prima fase dello sviluppo non va necessariamente bene nella seconda, una volta che la prima si sia esaurita.

A differenza della Cina, in Europa si ha sia uno stato sociale sia un sistema assicurativo. Non si ha così il vincolo del risparmio precauzionale. Inoltre, quando le cose si mettono male, come avvenuto con il Covid, è notevolmente espansa la spesa pubblica che eroga sussidi alle famiglie in misura tale che il reddito dei cittadini non possa subire forti variazioni negative. Questo intervento di sostegno al reddito si è avuto anche negli Stati Uniti, ma non in Cina. In questo caso perché non si vogliono disperdere le risorse a favore del consumo individuale.

Il problema dell’Europa è diverso da quello cinese di una combinazione di consumi modesti e di obiettivi autarchici. Qual è allora il problema europeo?

In Europa ci sono molti  stati, ciascuno con una storia millenaria, una propria lingua, e un sistema economico simile, o non troppo dissimile da quello degli altri. Ciascuno di questi governi deve rispondere alla propria popolazione e non a una cittadinanza genericamente europea. Insomma, manca il demos europeo.

E qui si ha la grande differenza con gli Stati Uniti, i cui Stati non hanno storie millenarie, parlano la stessa lingua, e hanno specializzazioni economiche diverse. Il risultato, alla fine, è che ciascuno stato europeo teme, se si procedesse con l’intervento comune nei progetti di modernizzazione, di finire con il finanziare le imprese fra le quali non ci sia il proprio o i propri “campioni nazionali”. E che, facendo così, ciascuno stato sarebbe punito dal proprio demos.

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