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La legge dell'impunità

Così la lotta al terrorismo islamico restaurò i rapporti tra occidente e Russia

Paola Peduzzi

Dopo il 2014 i paesi occidentali risanaro i rapporti con il Cremlino nonostante la prima invasione russa dell'Ucraina: il nemico comune, lo stato islamico, era più importante. Oggi, per Putin i terroristi sono gli ucraini, gli occidentali e intanto è diventato terrorista pure lui

La lotta al terrorismo islamico fu una delle ragioni per cui l’occidente, e in particolare gli Stati Uniti, restaurarono i loro rapporti con la Russia di Vladimir Putin dopo la prima invasione russa dell’Ucraina, nel 2014. Al G20 del novembre del 2014 in Australia, Putin era rimasto isolato, c’erano state molte dichiarazioni che condannavano l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea e il presidente russo aveva lasciato il vertice in anticipo: disse che non voleva stare in fila all’aeroporto aspettando che gli altri leader decollassero. Al G20 dell’anno successivo, sempre a novembre ma in Turchia, Putin e l’allora presidente americano Barack Obama si incontrarono, sorrisero ed ebbero una “conversazione costruttiva” sulla lotta allo Stato islamico. Gli attacchi di Parigi – al Bataclan, allo Stadio di Francia e per le strade della capitale: 130 morti, 413 feriti – erano accaduti pochi giorni prima di quel G20. Lo Stato islamico stava attraversando il momento di massima espansione e aveva iniziato a colpire anche fuori da quello che considerava il suo “stato”.
 

A settembre del 2015, due mesi prima del G20 turco, erano iniziati i raid aerei delle forze russe in Siria: formalmente erano parte della lotta allo Stato islamico, di fatto servivano a colpire l’opposizione al dittatore siriano, Bashar el Assad, che pur massacrando il suo popolo dal 2011 con le bombe piene di chiodi e il gas sarin diceva di far parte anche lui della guerra contro “i terroristi”. Il coinvolgimento della Russia in Siria era andato di pari passo con la prima invasione dell’Ucraina, anche se era stato malauguratamente avviato dall’Amministrazione Obama. Assad aveva attaccato Ghouta nell’agosto del 2013 con il gas sarin, la linea rossa delle armi chimiche era stata violata, Washington preparava l’intervento militare contro Damasco, montava la propaganda assadista e russa contro le “potenze imperialiste” guerrafondaie, Obama perse lo slancio unilaterale, andò al Consiglio di sicurezza dove iniziò a scontrarsi con il prevedibile veto russo. Poi l’allora segretario di stato americano, John Kerry, disse l’improvvida frase a Londra, nel settembre del 2013: se Assad consegnasse le armi chimiche si potrebbe evitare la guerra, ma non lo farà. Putin colse l’occasione al volo, disse a Damasco di consegnare l’arsenale, Assad rispose che lo avrebbe fatto perché si fidava della leadership russa, e Putin scrisse un editoriale sul New York Times in cui diceva: i terroristi sono i ribelli siriani, sono loro ad aver fatto l’attacco a Ghouta per scatenare la reazione internazionale contro Assad (disse anche che l’eccezionalismo americano era una fandonia e che non avrebbe accettato alcuna operazione americana al di fuori di quanto stabilito al Consiglio di sicurezza dell’Onu). L’iniziativa occidentale contro Damasco era scongiurata, il bluff della lotta comune al terrorismo e allo Stato islamico era stato costruito e di fatto accettato dall’occidente: sei mesi dopo, nel marzo del 2014, Putin annetteva la Crimea.
 

Il 2014 è stato l’anno dell’isolamento russo, delle sanzioni, del tentativo rivelatosi tiepido di redarguire Putin e riportarlo alle regole internazionali, ma è anche stato l’anno dell’annuncio del Califfato dello Stato islamico, delle grandi conquiste territoriali, del reclutamento che poi sarebbe servito non soltanto in medio oriente, ma pure in occidente. Poiché l’Amministrazione Obama ha di fatto delegato a chi aveva la possibilità di controllare il terreno tra Iraq e Siria la lotta allo Stato islamico – i boots on the ground americani furono esclusi, ma quella guerra si poteva vincere soltanto riconquistando territori dalla furia dello Stato islamico quindi ci si affidò ai boots degli altri – la Russia è tornata a essere un’interlocutrice. Certo, c’era grande scetticismo, non si può dire che ci si fidasse di Putin, ma i russi erano molto abili nel negare le loro nefandezze – in Ucraina e in Siria – e a portare invece ogni tanto qualche pegno dimostrativo. Qualche giorno prima del G20 dei dialoghi costruttivi tra Obama e Putin, Mosca aveva bombardato Raqqa, la “capitale” siriana dello Stato islamico, e un suo aereo era stato abbattuto dagli islamisti. Obama disse che quell’episodio dimostrava che era in corso un “riorientamento” russo contro il nemico comune.
 

Oggi, dopo l’attacco a Mosca di un’emanazione dello Stato islamico, l’Isis-K, Putin dice che la responsabilità è dell’Ucraina. Quando il 7 marzo l’intelligence americana aveva avvertito la Russia della possibilità di un attacco terroristico “imminente” sul suo suolo – è la politica del “duty to warn”, il dovere di avvertire – Mosca aveva reagito dicendo che si trattava di “dichiarazioni provocatorie” volte a “intimidire e destabilizzare la nostra società”. Mentre l’occidente collaborava con la Russia nella lotta allo Stato islamico, la Russia ha sì colpito, quando necessario, il gruppo islamista, ma ha anche consolidato un asse terroristico in proprio con altre forze, a partire dalla Repubblica islamica d’Iran. Così oggi per Putin i terroristi sono gli ucraini, gli occidentali, i dissidenti e gli “agenti stranieri” – intanto è diventato terrorista pure lui

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi