Il presidente della repubblica Francese Emmanuel Macron - foto Ansa

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La guerra tra Italia e Francia si fa sulle imprese: è la geoeconomia, la bellezza!

Stefano Cingolani

Banche, chip, Stellantis e aziende. Le tensioni aziendali e commerciali tra i due paesi firmatari del Trattato del Quirinale, passati dall'era della sovranità a quella della souveraineté. Le accuse a Macron e perché la cooperazione, alla fine, è meglio per tutti

Siamo in guerra con la Francia. Noi che dal 1789 ci sentiamo tutti un po’ francesi, noi che abbiamo salutato Napoleone come un liberatore prima che vendesse Venezia agli austriaci, non ce ne siamo resi conto. Lui sì, Bruno Vespa lo sapeva prima di tutti, non a caso è il giornalista numero uno della Nazione. Se è così, non ha commesso un’indebita violazione della privacy il drone mandato (a spese di chi, di mamma Rai?) sopra la casa torinese di John Elkann, il principino del capitale, il gelido rampollo metà francese metà italiano, il quale, accusato di aver usurpato l’eredità del nonno poi ceduta alla Francia, conduce con i suoi giornali una campagna contro l’eletta dal popolo italico. À la guerre comme à la guerre. Prima ancora di giudicare dovremmo entrare negli oscuri labirinti dell’intelligence, dell’informazione militare, dello spionaggio insomma, del tutto lecito in campo nemico. Ne hanno fatte di peggio penne vagabonde come Graham Greene, divi come Errol Flynn, filosofi, scienziati, donne fascinose. Per non parlare dei giornalisti. Facciamo del facile sarcasmo? Aspettate a prender partito. Il mondo è cambiato in un batter di ciglia. Qualcuno ricorda ancora che tra Italia e Francia esiste un Trattato del Quirinale? È stato firmato in pompa magna il 26 novembre 2021 grazie alla buona volontà di Mattarella e all’effetto Draghi. Sono trascorsi 28 mesi, sembrano 28 anni durante i quali siamo entrati nell’èra della sovranità contro la souveraineté.
 

Si può tornare molto indietro nel tempo per ricostruire il rapporto sempre difficile tra italiani e francesi. I cattolici non hanno mai perdonato alla “figlia primogenita della Chiesa”, che ha difeso sempre il papato con le armi, di aver proclamato la Dea ragione che invece accese i sogni dei liberali e dei giacobini finché non venne il tradimento del Grande Corso. L’aiuto di Napoleone III all’Unità d’Italia non risparmiò gli zuavi a Porta Pia. E potremmo continuare tra alleanze nella Grande guerra e tradimenti mussoliniani. Ma per tornare a giorni più vicini dobbiamo ricordare l’inimicizia di Charles de Gaulle e la vicinanza di François Mitterrand a Bettino Craxi, mentre l’attuale destra italiana non ha mai lavato l’onta subita da Silvio Berlusconi (francofono e craxian-mitterrandiano) prima per mano di Jacques Chirac che boicottò la Cinq, la tv che Mediaset aveva installato a Parigi, e poi, soprattutto, ad opera di Nicolas Sarkozy nel novembre 2011. Due presidenti entrambi gollisti anche se a modo loro. Quanto a Emmanuel Macron, essendo a cavallo tra destra e sinistra, non piace a nessuno. Del resto, ci ha messo del suo con l’idea di un “sovranismo industriale”.
 

Come molte guerre, a cominciare dalla più studiata nelle accademie, la guerra del Peloponneso, anche quella tra Italia e Francia cova nel melmoso fronte dell’economia. Il processo che gran parte della politica e dei media italiani hanno aperto contro la Francia si basa su una serie di imputazioni, in parte fondate, in parte parziali, in parte costruite ad arte. La prima è quasi ovvia: i francesi vogliono sempre comandare da soli. La più crudele delle ferite recenti è stata inferta a proposito dei cantieri navali e Carlo Calenda, allora ministro dell’Industria, se l’è legata al dito. L’ultima colpisce la STMicroelectronics, finora un vero modello di cooperazione alla pari. La più pesante riguarda Stellantis che, volente o nolente, resta il primo gruppo manifatturiero italiano.
 

I Cantieri dell’Atlantico nascono nel 1862 a Saint-Nazaire alla foce della Loira con i soldi dei fratelli Pereire, che con il loro Crédit Mobilier finanziarono anche le ferrovie italiane. Attaccati durante la Seconda guerra mondiale perché base di sommergibili tedeschi, risorgono nel 1955 con i soldi dello stato. Seguono una serie di vicissitudini fauste (costruiscono la Queen Mary 2) e infauste (la concorrenza nordica e asiatica li mettono a terra). Nel 2008 finiscono al gruppo norvegese Aker che due anni dopo li cede alla sudcoreana STX. Ma la Corea del sud, un tempo leader nelle costruzioni navali, è ormai insidiata dalla Cina, così nel 2018 fa uno spezzatino e mette in vendita le diverse filiali. Gli storici Chantiers de l’Atlantique a Saint-Nazaire sono acquistati da Fincantieri, controllata da Leonardo, quindi a partecipazione statale. Un’operazione di mercato pulita pulita. Ma all’Eliseo arriva Emmanuel Macron che alle elezioni aveva promesso la sovranità della Francia in ogni campo, a cominciare dall’industria, così l’accordo viene rimesso in discussione con gran dispetto del governo Gentiloni. Il capitale passa allo stato francese, si cerca un compromesso e nel 2018 sembra fatta con un accordo fifty-fifty, senonché si piazza di traverso l’antitrust europeo e, sollecitato da Parigi e da Berlino, si rimangia il precedente via libera. Adieu. Ciascun per sé, concorrenti come prima
 

La STMicroelectronics, vero campione europeo dei microprocessori, tra i primi cinque al mondo, fatturato attorno ai 17 miliardi di euro, è controllata al 27,5 per cento da una holding divisa esattamente a metà tra il Mef, il ministero italiano dell’Economia, e la banca di stato Bpifrance. Nata nel 1987 dalla fusione tra la italiana Sgs Ates e la francese Thomson-Csf, l’azienda è stata guidata a lungo da manager italiani, fin dall’inizio dal carismatico Pasquale Pistorio, poi dal 2005 da Carlo Bozotti. Nel 2018 arriva in plancia di comando Jean-Marc Chery. Il suo mandato scade quest’anno, ma il consiglio di sorveglianza ha raccomandato che alla prossima assemblea venga rinnovato per un altro triennio. Il governo Meloni non è d’accordo. Rimprovera a Chery di aver penalizzato la componente italiana nel consiglio di amministrazione (tre anni fa erano 5 su 8, oggi sono 3 su 7), nel management, nella produzione perché sarà chiuso il comparto automobilistico guidato dall’italiano Marco Monti, che ha dato le dimissioni. Inoltre viene concentrato oltralpe il grosso degli investimenti europei per il Chips Act che stanzia in tutto 43 miliardi di euro, rallentando il potenziamento dell’impianto di Catania. La sede centrale è in Svizzera, in Francia ci sono tre grandi stabilimenti, altrettanti in Italia, uno a Singapore e numerosi impianti in Asia e in Marocco. Dunque, l’incanto è rotto, forse non per sempre, certo Roma vuole giocare per la prima volta un ruolo importante in un settore strategico come la produzione di chips. Oggi, a parte la Stm, ci sono sul suolo italiano solo aziende piccole, nessuna specializzata nella produzione più avanzata, come ammette lo stesso Mef.

 

 

Il comando e la proprietà sono i pomi della discordia anche in Stellantis. È sotto attacco il capo azienda Carlos Tavares, portoghese di nascita, ma francese per studi e incarichi di lavoro (prima alla Renault poi alla Peugeot). Secondo il governo italiano e i sindacati sta penalizzando gli stabilimenti della penisola. Lui smentisce, giura che l’Italia è nel suo cuore e ha nuove grandi idee per Mirafiori, sempre che ci siano sostegni pubblici all’auto elettrica. Il ministro Adolfo Urso incassa e dice di crederci. La questione più spinosa riguarda la presenza dello stato francese nel capitale, accettata di buon grado sia da John Elkann sia da Robert Peugeot al momento del loro matrimonio, che ha spostato fuori d’Italia la testa e la guida della fu Fiat Chrysler. Il fatto che Elkann possieda anche Repubblica viene considerata un’aggravante. Il governo di Macron ha uno zampino anche in EssilorLuxottica che è amministrata da un italiano, ma è quotata alla borsa di Parigi e su di lei sventola il tricolore con il blu al posto dell’italico verde. Francesco Milleri, il top manager che guida anche la finanziaria Delfin, cassaforte degli eredi Del Vecchio, prima azionista con il 31,9 per cento, ha aperto le porte a un eventuale ingresso in EssiLux anche dello stato italiano per controbilanciare Parigi, entrato con l’onnipresente presente Bpi. L’ha buttata là in un’intervista, ma gli analisti l’hanno letta come un sintomo di disagio, quasi che Milleri si senta insidiato e sotto assedio.
 

I francesi hanno portato via la ricchezza italiana: è questo il capo d’accusa più popolare, lanciato anni fa quando due francesi erano alla guida di Unicredit e di Assicurazioni Generali. Oggi Jean Pierre Mustier ha lasciato la banca a un manager romano, Andrea Orcel (ha frequentato il liceo Chateaubriand, ma è un peccato veniale); mentre Philippe Donnet, in sella al Leone di Trieste, ha preso la cittadinanza italiana. Mediobanca non ha più legami con la Lazard, mentre Vincent Bolloré si lecca le ferite e cerca di ammortizzare le perdite delle sue fallimentari campagne (soprattutto in Tim e Mediaset). Certo, in Italia non c’è un colosso del risparmio gestito come Amundi, anche perché il campanilismo italiano, bancario oltre che industriale, ha ostacolato la nascita di un mercato finanziario. Il valore dei titoli quotati a Parigi è pari a 3.100 miliardi di euro, più del prodotto lordo transalpino, Francoforte è al 60 per cento del pil, Milano al 40. Il governo Meloni insiste nel difendere le banchette locali, mentre poi piatisce sulla mancanza di un campione del risparmio sovrano. È vero che Parmalat è tutta francese, però Calisto Tanzi è fallito per colpa sua e il governo Berlusconi non ha voluto che finisse alle cooperative rosse (Granarolo in questo caso), così è arrivata Lactalis della famiglia Besnier che l’ha rilanciata come ha fatto con Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori, Vallelata ecc. E chi ha venduto Loro Piana e Bulgari alla LVMH di Arnault, per non parlare di Gucci finita a Pinault? E’ sterminato e penoso l’elenco di imprenditori italici che hanno scambiato la fabbrica per lo yacht, gettando la spugna per intascare milioni, anzi miliardi di euro. La scalata alla Montedison che ha dato vita a Edison, oggi secondo gruppo elettrico in Italia, è stata organizzata nel 2001 dalla Fiat di un ormai senescente Gianni Agnelli insieme alla francese Edf. Il governo Amato è intervenuto per congelare la partecipazione, ci sono state compensazioni per l’Enel, ma tant’è. Sembra di rileggere i libri di storia quando Ludovico il Moro chiamò Carlo VIII per far dispetto a Firenze e piegare Napoli. E “l’arbitro d’Italia”, come lo definì Francesco Guicciardini, finì in fuori gioco.
 

I francesi non rispettano la tradizione e il modello italiano: è la terza imputazione. E’ successo spesso, anche perché esiste una forte diversità nella cultura d’impresa e nella stessa gestione. In Francia si nomina un uomo solo al comando, nello stesso tempo presidente e direttore generale, che accentra tutti i poteri; l’Italia da tempo segue più il sistema americano e in parte tedesco con un presidente di garanzia responsabile verso gli azionisti e un amministratore delegato a gestire l’azienda. Ci sono però esempi positivi di collaborazione, come nella difesa e nell’aerospazio. Sarà forse perché in quel campo prevalgono gli scienziati e la competenza è al primo posto (almeno finora), ma le  alleanze tra Leonardo e Thales sono state positive e i missili della MBDA filano che è una meraviglia. L’Italia mantiene un rapporto con l’industria americana della difesa più stretto rispetto alla Francia. Roma non è entrata nel consorzio Airbus per una serie di motivi tra i quali mantenere il piede anche sul predellino della Boeing. Tuttavia i velivoli Atr si fanno insieme a Tolosa e a Pomigliano d’Arco. Ciò smentisce il detto che dove ci sono di mezzo i governi c’è zizzania. Non possiamo fare di tutt’erba un fascio, pur senza ignorare il peso della politica, perché nella vita delle imprese non ci sono solo gli interessi materiali immediati, ma quelli strategici, di prospettiva, a cominciare dallo “spazio vitale”. La geopolitica ormai viene considerata sinonimo di politica estera, ma fu concepita per la prima volta dallo svedese Rudolf Kjellen come dottrina dell’espansione geografica dello stato e il generale Karl Haushofer la prese al balzo per sviluppare nel 1916 la sua teoria del Lebensraum che tanto piacque poi a Hitler. Oggi si sposa con la geoeconomia ed entrambe sono sempre più importanti per il futuro delle aziende. Peter Orszag, il capo della Lazard ormai americanizzata, scrive su Foreign Affairs che finanzieri e industriali agiscono in base a priorità “geopolitiche” talvolta più stringenti che non l’efficienza e il profitto. Dall’energia ai semiconduttori, dallo cielo alle miniere, è ormai evidente. Lo “spazio vitale” che dovrebbe unire e invece divide Italia e Francia, è il Mediterraneo o meglio il Nord Africa. Sulla Libia il contrasto comincia con le rivolte che hanno fatto cadere Gheddafi. Interessi petroliferi (Eni e Total), alleanze militari, legami storici, fino al controllo delle migrazioni, tutto ribolle nel calderone africano. In Mali, Parigi sconfitta dai fondamentalisti ha dovuto chiedere aiuto a Roma. In Tunisia e in Egitto, l’Italia ha chiesto aiuto all’Unione europea. 
 

Il governo della destra italiana ha accentuato la sfida tra i due sovranismi, ma sarebbe scorretto dimenticare che si tratta di un’onda davvero molto lunga. L’avvicinarsi delle elezioni europee accende eroici furori. Giocano poi le antipatie personali, Macron e Meloni sono troppo diversi, non potranno mai mangiare alla stessa tavola. L’Italia ha bisogno della Francia in primo luogo per le politiche europee (sui migranti e sul debito pubblico innanzitutto). La Francia non può fare a meno dell’Italia se davvero vuol portare fino in fondo il progetto di una difesa comune: nonostante le sue debolezze e le arretratezze, il potenziale militare italiano (industria compresa) viene subito dopo quello britannico e francese, precede la Spagna e la Germania che pure sta facendo passi da gigante. Tra i gruppi della difesa europei che più hanno guadagnato in borsa nell’ultimo anno, Leonardo è al top insieme alla britannica Bae Systems, alla tedesca Rheinmetall e alla svedese Saab. Si chiuderà una buona volta l’eterna “querelle des bouffons”? Quella del ’700 tra teatro musicale italiano e francese, quando l’infantile ricerca del primato ha coinvolto persino Rousseau, era almeno più innocua. A mettere la parola fine guadagneranno l’Italia, la Francia, l’Unione europea. E il primo che dice basta vince.

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