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Il foglio magazine

L'Olocausto sconsacrato. Effetto 7 ottobre: il massacro degli ebrei non è più un tabù

Pierluigi Battista

La normalizzazione che ci porta indietro nel passato. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla liberazione di Auschwitz la Shoah viene banalizzata, con Israele destinato a smarrire la sua aura che lo faceva “caro a una parte del mondo”

Non si era mai visto un Giorno della Memoria così scialbo e sbiadito, e insincero. E così paradossalmente atroce, con le vittime messe sul banco degli imputati come carnefici, in una dozzinale rappresentazione del teatro dell’assurdo. La liturgia stanca del Binario 21. Le ovvietà istituzionali di circostanza. Liliana Segre svillaneggiata da una Basile qualunque. I cortei dove la stella di David è proibita come simbolo di oppressione e dove ululano minacciosi con postura squadristica all’indirizzo del coraggioso ragazzo che aveva esposto un cartello con su scritto “Free Gaza from Hamas” (ma perché, cosa li fa indignare? Non dovrebbero essere d’accordo, se davvero volessero due popoli per due stati? O ne vogliono soltanto uno, senza Israele, dal fiume al mare?). Un tabù infranto. Una frontiera che sembrava inespugnabile violata. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla liberazione di Auschwitz la Shoah, come ha giustamente scritto Adriano Sofri (che da questa riga in poi dubito possa darmi a sua volta ragione), appare “sconsacrata”, normalizzata, banalizzata, con Israele destinato a smarrire la sua aura che lo faceva “caro a una parte del mondo”. La sconsacrazione dell’Olocausto. Una barriera sgretolata. Un’intimazione al silenzio e al rispetto per gli ebrei sterminati oramai venuta meno, risucchiata nell’indifferenza, e stavolta non nelle solite bande di neonazi decerebrati, tra negazionisti compulsivi e parate di saluti romani, ma nel cuore delle classi dirigenti (tra i miei amici, tra i nostri amici, tra i vostri amici, se posso dire). Un sottile e oramai irrefrenabile sentimento antiebraico imbevuto di furore antisionista che se non lo vogliamo chiamare antisemitismo per non apparire così inopportunamente grossolani potremmo definirlo diffidenza, antipatia, insopportazione per gli ebrei che reagiscono sempre in modo “sproporzionato”. Ebrei, beninteso, non solo israeliani. Non c’è più nemmeno l’ombra dell’indignazione e dello sgomento se in un aeroporto del Daghestan parte la caccia ai viaggiatori ebrei inseguiti fino dentro i cessi tra le urla della folla scatenata. E neanche le donne ebree massacrate e stuprate sembrano meritevoli di una solidale e corale indignazione: violentate di un dio minore. Ebree, colpite e trucidate come ebree: e l’occidente buono fischietta. Il tabù è a pezzi. E il suo atto di morte ha una data precisa: il 7 ottobre del 2023, il giorno in cui tutto è cambiato (in peggio).


Chissà, se oggi uscisse “La vita è bella”, si verserebbero tante lacrime come se ne sono versate quando il tabù della Shoah era ben conficcato nelle coscienze dell’occidente democratico? E con “Schindler’s List” come la metteremmo, magari fischierebbero pure per protesta il regista Steven Spielberg che sta girando, nel silenzio assoluto dei media e del mondo del cinema che di solito ne incensa le tante e meravigliose opere, un docufilm sull’orrore del 7 ottobre, il più grande pogrom dal 1945. E siamo certi che persino un film come “Exodus”, da denuncia commovente dell’insensibilità con cui ai profughi ebrei sopravvissuti allo sterminio fu impedito di scendere da una nave, non verrebbe oggi vissuto come un reportage sui colonialisti ebrei destinati a uccidere e depredare i palestinesi? Lia Levi, sopravvissuta allo sterminio, ha scritto in un articolo bellissimo di “Shalom” con il titolo bellissimo “Voi non meritate il nostro dolore”: ma come, ci invitate sempre nelle scuole a parlare di Auschwitz e adesso tutta questa attenzione “ha fatto presto a volar via”? Quando crolla la diga, del resto, le acque limacciose della normalizzazione della Shoah scorrono senza argini. Gli studenti ebrei bullizzati non impressionano più. Le sinagoghe prese d’assalto, anche. Le pietre d’inciampo divelte, anche. Le case contrassegnate e con la stella di David come minaccia permanente, anche. La banalizzazione e la normalizzazione narcotizzano gli stati d’animo. “La parola ‘genocidio’”, ha scritto già tempo fa profeticamente Alain Finkielkraut, ha fatto “una carriera trionfale nel linguaggio corrente. Col risultato di morire d’inflazione”. Se José Saramago parlava di Israele come della “nuova Auschwitz” veniva lasciato solo nel suo delirio, o al massimo in compagnia dei suoi fanatizzati accoliti. Oggi invece l’identificazione di svastica e stella di David è moneta corrente, corrosa anch’essa da un’inflazione semantica devastante. Ho chiesto a un fiero giovane democratico, progressista, colto, cosa ne pensasse del fatto che il Diario di Anne Frank sia vietato nella Gaza sequestrata da Hamas per non diffondere “l’infezione della menzogna sionista”. Mi ha guardato come se lo stessi provocando con una fake news. Ed è passato ad altro: usurpazione, 75 anni di oppressione, genocidio, eccetera. Stop. 

E’ un periodo storico che si chiude. E si torna per inerzia alle consuetudini del mondo che ha preceduto la catastrofe. Prima della Shoah, prima del formarsi del tabù oggi andato in frantumi, l’antisemitismo, o la diffidenza, l’ostilità, l’insopportazione per gli ebrei, era molto diffuso tra le classi dirigenti colte dell’occidente borghese. Ai tempi dell’affare Dreyfus, Émile Zola venne lasciato solo con il suo J’accuse e fu condannato a un anno di reclusione senza che nel ceto intellettuale, di destra e di sinistra, si alzassero molte voci a sua difesa. Negli anni Trenta una certa sussiegosa diffidenza verso i misteriosi “ebrei” veniva captata, ha raccontato Isaiah Berlin, persino dal più filoinglese della classe dirigente sionista come Chaim Weizmann, stupito dai gesti sospettosi e dalle idiosincrasie dell’establishment britannico timoroso dello sregolato disordine che gli ebrei infiammati dalla predicazione sionista di Theodor Herzl avrebbero potuto portare nella storia e nella politica internazionale. La letteratura l’ha raccontato meglio di ogni altro, dalle pulsioni antiebraiche nella Francia della “Recherche” di Proust alle opere di Bernard Malamud e di Saul Bellow sul rapporto idiosincratico dell’America nei confronti dei figli dei profughi ebrei in fuga dai pogrom dell’Est Europa. Già all’indomani della Notte dei cristalli, novembre 1938, quando ancora si poteva evitare in extremis la catastrofe totale, una nave carica di 937 passeggeri tedeschi ebrei di cui 550 donne e bambini, la Saint Louis, fu ricacciata in mare aperto, rifiutata dai porti di Cuba ma anche da quelli del Canada e persino degli Stati Uniti. Si poteva fare, era accettabile che si potesse fare, non era scandaloso farlo. Ma non si fece. Sono passati 85 anni da quella cacciata dell’ebreo in mare e siamo tornati al punto di partenza. Il tabù si è sbriciolato in pochi decenni. Un’inezia, nella lunga storia dell’umanità e anche degli ebrei abbandonati da quella parte del mondo che per un po’ ha avuto “caro” il destino di Israele.


Che poi anche il luogo comune dell’Olocausto come evento fondativo dello Stato di Israele si presta a innumerevoli equivoci. Scampato a un campo di sterminio, Aharon Appelfeld ha raccontato “il silenzio”, il “non proferir sillaba” dei superstiti della Shoah approdati nel mondo ostile degli ebrei dello “Yishuv” e persino disprezzati per essere restati inermi prima e durante la catastrofe, accomodanti e refrattari alla costruzione del “nuovo ebreo” forgiato nella Terra promessa. “Giunto in Israele, nella ‘terra dei padri’” – ha scritto Georges Bensoussan – “il sopravvissuto inizia un nuovo esilio”. Per anni nello Stato di Israele quasi ci si vergognava per la sorte di quegli ebrei che come “pecore al macello” erano andate al massacro senza resistenza, tranne quelli eroici della rivolta del ghetto di Varsavia. Si contrapponeva, ha scritto Tom Segev in quello splendido, spietato e nello stesso Israele controverso libro che è “Il settimo milione”, la figura fiera del nuovo ebreo sionista, determinato, agguerrito, fondatore di una nuova storia, spirito rigenerato nel lavoro e nel rigore di una nuova comunità, ai miasmi dello sfibrato ebraismo europeo che aveva creduto nelle mollezze e nei compromessi dell’assimilazione. E questo per parecchi anni, sebbene nel corso dei combattimenti nella “guerra d’indipendenza” del 1948-1949 un terzo dei combattenti di Tsahal, il giovane esercito israeliano nato dall’Haganah, fosse costituito da sopravvissuti della Shoah. Furono la cattura (1960) e il processo e la condanna a morte di Adolf Eichmann e segnare una svolta emotiva radicale tra lo Stato di Israele e la Shoah. Ben Gurion sottolineava senza tregua che “alla sbarra non c’è soltanto il criminale nazista, ma il genocidio” per “imprimere nella coscienza degli israeliani gli insegnamenti dell’Olocausto”. “Raramente ci è capitato di provare uno choc e un’emozione così vivi”, scrisse in quel frangente un giornale, “mai, dai tempi della Dichiarazione di indipendenza, gli israeliani avevano provato una sensazione di unità così forte”. Fu una trasformazione esplosiva, travolgente, il ristabilirsi di un legame profondo tra lo Stato degli ebrei e i milioni di ebrei trucidati nella Shoah e Hannah Arendt, che con grande lucidità aveva dubitato della stessa legittimità giuridica e storica del processo, fu messa al bando e additata quasi come una traditrice. Furono piuttosto i nemici di Israele a maturare un’ostilità quasi paranoica per l’Olocausto come fonte di legittimazione dell’“entità sionista” e il presidente iraniano Ahmadinejad fu così ossessivamente imbevuto di negazionismo da organizzare maniacalmente grotteschi simposi internazionali sulla “menzogna” della Shoah. Faurisson, Garaudy e David Irving erano dei dilettanti, al confronto. 

E certo, il tabù della Shoah è stato anche alimentato da una torsione in senso teologico-religioso e addirittura demonologico che ha assunto le vesti di un esclusivismo spesso controproducente. L’assoluta unicità. L’indicibilità. L’incomparabilità. L’irriproducibilità (peraltro contraddetta dal declamato “mai più”, che teme appunto la riproducibilità di un evento storico). L’imparagonabilità. L’irruzione metafisica e metastorica del Male assoluto. L’impossibilità di comporre poesie dopo Auschwitz, come diceva Adorno. Questa rivendicazione di assoluta unicità prese talvolta una tonalità aspramente polemica verso chiunque fosse impegnato in quel tipo di ricerca che sempre Finkielkraut ha definito ironicamente “l’analogia sacrilega” tra il totalitarismo nazista e quello comunista. Robert Conquest che nel “Raccolto di dolore” aveva suggerito una comparazione tra lo sterminio antisemita e lo “sterminio di classe” attuato dal comunismo sovietico con l’Holodomor, la grande carestia artificiale in Ucraina per annientare tutta la classe dei kulaki in quanto kulaki, venne bollato come un volgare “riduzionista”, sospettato di voler ridimensionare la portata apocalittica di Auschwitz. Anche François Furet (e insieme a lui studiosi come Alain Besançon, Victor Zaslavsky per il massacro di Katyn e la stessa Hannah Arendt, ebrea tedesca in fuga dalle fauci di Hitler, per la sua comparazione tra i totalitarismi) fu messo nel mirino per aver menzionato il Lenin che già nel 1918 istruiva i volonterosi aguzzini della Ceka con queste farneticazioni sterminazioniste: “Non stiamo lottando contro persone singole. Stiamo sterminando la borghesia come classe. Non bisogna cercare la prova che l’accusato abbia agito con azioni o parole contro il potere sovietico. Le domande che bisogna porsi sono: qual è la sua origine sociale? Qual è la sua istruzione o professione? Ed è la risposta a queste domande che deve decidere il destino dell’accusato”. Pulizia di classe, appunto: colpiti per ciò che si è e non per ciò che si fa. 

Eppure il tabù della Shoah, la percezione morale che esistesse con gli ebrei un “dopo” che non avrebbe mai più tollerato il “prima” ha funzionato come freno inibitorio, come imperativo, come argine che avrebbe tenuto a bada pulsioni e tentazioni antisemite nel mondo in cui Israele era ancora, precariamente come si vede, “caro”. Per chi non lo avesse avuto così caro, come ha scritto Giorgio Israel nel suo “La questione ebraica oggi”, la specificità dello sterminio degli ebrei veniva negata e trattata come puro espediente per occultare i crimini del capitalismo: “Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L’odio di classe si traveste da odio di razza”. Cioè l’odio antiebraico era solo un paravento, se non proprio una messinscena. E tuttavia, pur nella sua cecità, questa implicita minimizzazione non arrivava al punto di sfasciare il tabù secondo il quale gli ebrei non possono essere perseguitati, non può essere moralmente tollerabile che siano perseguitati, in Israele e ovunque nel mondo. Attenzione, disse dopo la Guerra dei sei giorni Umberto Terracini, padre costituente, comunista, perseguitato dal fascismo: “La crociata contro Israele è l’ultima incarnazione dell’antisemitismo”. Gli diedero retta in pochi, nel suo partito. Ma quell’ultima barriera non si ruppe mai. Fino al 7 ottobre del 2023, il giorno che cambiò tutto, in peggio.

 

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