negoziati fermi

La risposta di Hamas alla proposta di accordo è vecchia

Per vincere a Gaza, Netanyahu ha bisogno di una nuova coalizione: nessuno sopporta più Ben-Gvir, il ministro dell'Insicurezza nazionale

Micol Flammini

I terroristi ripetono le stesse condizioni e rompono il silenzio, nel giorno in cui l'esercito israeliano dice che trentadue ostaggi sono morti nella Striscia. Blinken va in Israele a parlare di compromessi: si negozia ancora per salvare i prigionieri

Le foto con le facce dei rapiti che tappezzano le strade di Tel Aviv mettono insieme chi è tornato e chi è ancora nella Striscia, i vivi, i morti e coloro di cui non si sa nulla. Anche durante la tregua di fine novembre, quando sui muri  iniziavano a comparire i volti di qualcuno che era tornato, le loro foto rimanevano appese, incollate, immobili fra tutti i ritratti, dolorosamente impassibili per dire che  quel trauma è lì per restare. E anche se da quella tregua sono trascorsi ormai due mesi, i volti sono tuttora ancorati l’uno all’altro. Il primo ministro del Qatar, Mohammed  al Thani, oggi ha incontrato il segretario di stato americano Antony Blinken e durante la conferenza stampa ha detto di aver ricevuto una risposta da parte di Hamas riguardo all’accordo per la liberazione degli ostaggi e ha riscontrato “uno spirito generalmente positivo”. È stato al Thani a usare l’aggettivo “positivo”, ma la risposta di Hamas è sempre la stessa, le sue condizioni non cambiano – cessate il fuoco permanente, ricostruzione di Gaza, scambio di prigionieri – ed è stato il presidente americano Joe Biden a definire la proposta “eccessiva”, domani Blinken sarà in Israele per continuare a negoziare. Per più di una settimana Hamas non ha dato risposte riguardo all’accordo, ha rotto il silenzio con una proposta vecchia, dopo l’arrivo di una notizia atroce per Israele:  alcuni ufficiali dell’esercito  hanno detto al New York Times che circa un quinto dei centotrentasei ostaggi  ancora nelle mani di Hamas, del Jihad islamico e di privati cittadini che il 7 ottobre hanno preso parte all’attacco o hanno aiutato nell’organizzazione, è ormai morto. Si tratta di almeno trentadue persone, molti sono soldati uccisi durante l’assalto ai kibbutz e trascinati, ormai cadaveri, nella Striscia. Altri sono morti durante la prigionia. Il numero potrebbe essere ancora più alto e nel peggiore dei calcoli, gli ostaggi non più in vita potrebbero essere oltre  cinquanta. 


Tre ragazzi israeliani sono stati uccisi per errore dall’esercito, mentre avanzavano per Gaza city con dei drappi bianchi: erano riusciti a scappare. Altri ostaggi  sono morti da prigionieri e in alcuni casi Hamas ha pubblicato dei video con i loro corpi, a volte preceduti da indovinelli vili e macabri sulla loro sorte e accusando l’esercito di averli uccisi durante i bombardamenti. I terroristi usano gli ostaggi per aumentare il loro potere nei negoziati, per aumentare le divisioni nella società israeliana che ogni sera, che abbia o meno rapporti di parentela con chi è imprigionato nella Striscia, scende in strada e protesta chiedendo un accordo subito e a ogni condizione. Dopo le rivelazioni di Tsahal di martedì 6 febbraio, la risposta di Hamas sull’accordo dimostra un tempismo difficile da ignorare. Oltre al dolore fisico, i terroristi  hanno capito come imporre il dolore morale a Israele. I manifestanti chiedono le dimissioni del governo, che condensa una delle coalizioni più improbabili che siano mai state alla guida del paese. La scorsa settimana, il ministro per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha rilasciato un’intervista al Wall Street Journal: non ama i giornali, quando parla preferisce i comizi pubblici, ma alla testata americana ha detto che se al posto di Joe Biden ci fosse stato Donald Trump, la “posizione di Israele sarebbe completamente diversa”, perché l’ex presidente non avrebbe perso tempo a pensare agli aiuti umanitari e al carburante per Gaza, “che vanno a Hamas”, e avrebbe dato il “pieno appoggio” allo stato ebraico.

 

Dopo l’intervista, il quotidiano conservatore e falco Jerusalem Post ha pubblicato un editoriale dal titolo preciso: “È ora che Ben-Gvir stia zitto”. Ben-Gvir è un urlatore, nel suo ufficio aveva appeso  alla parete la foto di Baruch Goldstein, un colono estremista che uccise ventinove  musulmani nel 1994 e all’inizio della guerra iniziò a distribuire fucili ai cittadini: si fermò soltanto quando gli Stati Uniti dissero che non ne avrebbero più mandati. La scorsa settimana si è presentato dalla polizia con barba finta e cappello per testarne la capacità di reazione: gli agenti, nel clima teso che c’è nel paese, non hanno gradito l’imboscata. Poi, dopo aver urlato contro gli uomini della sua scorta che lo aspettavano fuori casa, si è infilato nella macchina di un suo vicino facendo perdere le sue tracce: proprio come gli agenti, neppure la scorta ha gradito la fuga. Ben-Gvir ha detto di essere contrario a qualsiasi accordo con Hamas, ha organizzato un evento per parlare della ricostruzione di Gaza attraverso la creazione di nuove colonie.

 

Per vedere tornare gli ostaggi, Israele dovrà accettare un compromesso senza “proposte eccessive”, ma la convivenza con Ben-Gvir e altri che la pensano come lui rende impossibile qualsiasi soluzione. Dal 7 ottobre, le decisioni importanti in Israele non le prende il governo, ma il gabinetto di guerra costituito da Benny Gantz, Gadi Eisenkot,  il premier Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e nessun altro del governo. Lunedì Netanyahu ha incontrato Yair Lapid, il leader del partito di centro sinistra Yesh Atid che sarebbe disposto ad aggiungersi al gabinetto di guerra, ma a patto che non ci siano più gli estremisti come Ben-Gvir. A qualcuno Netanyahu deve rinunciare, o agli incompetenti urlatori, o ai competenti che sono favorevoli a un accordo, quindi a un compromesso doloroso. Alcune indiscrezioni sulla stampa israeliana parlavano di una possibilità: i leader di Hamas potrebbero accettare l’esilio da Gaza come parte dell’accordo.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.