Una partente di una vittima degli attacchi del 7 ottobre al Nova music festival pianta una foto ricordo a Reim - foto Ansa

il reportage

La nuova vita di chi ha lasciato il proprio kibbutz per trasferirsi a Tel Aviv

Fabiana Magrì

La quotidianità e le storie dei residenti di Reim dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre, che ora sognano il ritorno. I ricordi visti da un grattacielo della città, la paura dell’instabilità e la malinconia di chi non c'è più

Il disorientamento è quasi tangibile, mentre fissano la porta dell’ascensore. Non è stata una decisione facile, per i 435 residenti di Reim, lasciare provvisoriamente la dimensione orizzontale dei viali e dei prati del kibbutz per una nuova vita in verticale in un condominio di Tel Aviv. All’inizio erano tutti contrari a una scelta che sembrava infliggere il colpo di grazia alla comunità violata e distrutta il 7 ottobre del 2023 dall’invasione di Hamas. Ma quando è stato chiaro che un ritorno a Reim non era all’orizzonte, il kibbutz ha messo al voto il trasferimento a Tel Aviv e oltre il 95 per cento dei membri ha deciso di imbarcarsi insieme nell’avventura urbana. Vero è che se esiste una città in Israele che è stata capace di conservare lo spirito comunitario, è proprio la micrometropoli del Mediterraneo orientale. Lo si deve al sindaco Ron Huldai, ex membro dell’omonimo kibbutz Hulda da cui il padre prese il cognome, alla guida di Tel Aviv ininterrottamente dal 1998. Negli ultimi quattro mesi il comune ha assorbito circa 20mila sfollati dal sud e dal nord di Israele. Oggi ne restano oltre 9mila. L’accoglienza include forme di sostegno medico e psicologico e attività per il tempo libero, la cultura e lo sport. Ma anche logistico, dai permessi di parcheggio alle tariffe ridotte per i residenti su vari servizi che si ottengono attraverso la app “My Digital”. Circa 3mila studenti sono stati integrati nelle scuole della città. “Questa è solo un’immigrazione temporanea – ha spiegato il sindaco Huldai – ma a tutti i membri del kibbutz ho detto: ‘Non siete ospiti, siete residenti. E riceverete tutti i diritti, il sostegno e l’assistenza che i cittadini ricevono sia regolarmente sia in caso di emergenza’. Faremo di tutto per ripristinare un po’ di fiducia nelle istituzioni pubbliche, oltre alla sensazione che c’è ancora del buono in questo mondo”.
 

“Un’accoglienza commovente. Una luce in questa terribile oscurità. Fortunatamente ci sono persone che trovano terapeutico fare del bene”, racconta al Foglio Zohar Mizrahi, mentre prepara una tisana allo zenzero nel suo nuovo appartamento al decimo piano, nel quartiere Florentin. E racconta divertita che è già nato un nuovo gruppo whatsapp per i locali e gli sfollati insieme, che si chiama FloReim (da Florentin + Reim). Una cordata di solidarietà composta da operatori privati capeggiati dai “Bnei Reim” (i figli di Reim, cioè quelli che nel kibbutz ci sono nati ma poi la vita ha portato a fare altre scelte) ha messo insieme un gruppo di aziende, investitori e donatori che si sono presi a cuore la comunità. Ne fa parte anche l’Unione dei lavoratori della Banca Discount. “Ci tengo a menzionarli –  dice la donna mentre, seduta sul divano, si perde a guardare il plumbeo cielo invernale dall’inedita prospettiva del decimo piano – perché non è stata la banca a dare i soldi ma il sindacato dei lavoratori. Sono state le persone a mettere mano al portafogli e non è qualcosa che si possa dare per scontato”.
 

Individuati due condomini gemelli in costruzione, i cui appartamenti non erano ancora stati venduti, li hanno completamente arredati e per un anno pagheranno gli affitti e le spese, con la possibilità di una proroga. “È un po’ come nel vecchio kibbutz, dove tutti avevano gli stessi mobili”, sorride Mizrahi cercando di far combaciare i pezzi del mosaico della sua vita precedente con quella di adesso. Poi si fa cupa: “Ho decine di numeri nel cellulare a cui nessuno risponderà più. Ma finché ci saranno persone in ostaggio, non potremo davvero piangere i morti. E’ come continuare a masticare senza riuscisse a mandar giù”, spiega. È ancora presto per dire quanto durerà questa soluzione provvisoria. “Abbiamo una fantasia che in estate torneremo a casa, quando i ragazzi finiranno l’anno scolastico”, dice. Zohar ha 51 anni. Suo marito Enav, nato a Reim 54 anni fa, è un agricoltore. Insieme hanno tre figli. Shahar (23), ha lavorato per un anno nell’asilo del kibbutz ma non ha ancora deciso cosa farà dopo. Suf compirà 20 anni a febbraio. Ha un autismo ad alto funzionamento e studia in un programma speciale per ragazzi come lui. Adi, la più giovane, frequenta il secondo anno delle superiori.  Del 7 ottobre Zohar parla come di uno “tsunami”. A Reim la squadra armata della sicurezza è riuscita a respingere i terroristi con l’aiuto dagli agenti di polizia di Ofakim e di varie unità dell’esercito. La battaglia peggiore è avvenuta nel quartiere dei giovani adulti. Il kibbutz ha perso cinque membri assassinati nelle loro case, due “Bnei Reim” uccisi altrove e tre lavoratori tailandesi. “Uno dei nostri giovani è andato ad avvisarli, a dire loro di fuggire, ma non hanno voluto. Credevano – spiega Mizrahi –  che essendo stranieri, nessuno li avrebbe toccati. Invece alcuni sono stati rapiti e altri uccisi, semplicemente perché non c’era più spazio per loro sul camion che li portava via”. Eppure, nella devastazione del massacro del sabato nero di ottobre, ci si ritrova a dire che quelli di Reim sono stati “fortunati”. “Nel senso che da noi – spiega la donna – abbiamo saputo da subito i nomi di tutti quelli assassinati o rapiti. I cadaveri non sono stati mutilati o le persone bruciate vive”. 
 

Tutti gli abitanti della “Otef Aza” – la cintura di terreni, kibbutzim e moshavim più vicini alla Striscia – sono concordi nel dire che una delle cose che sono state più gravemente ferite, quel sabato, è stata la fiducia. Nello stato, nel governo, nell’esercito, nei palestinesi della Striscia. Molti di loro erano pacifisti, volontari che andavano al confine per accompagnare i gazawi negli ospedali israeliani a ricevere cure. Sbagliavano? “Non credo”, risponde Mizrahi, che si definisce di sinistra, liberale e socialista ed è convinta che a lottare per i diritti degli altri non si sbagli mai. Ma “quel giorno – dice – l’attacco di Hamas ha dimostrato che non abbiamo davvero nessuno con cui parlare dall’altra parte. Sono sicura che tra loro ci sono persone innocenti, che non volevano tutto questo o non ne hanno preso parte. Ma la maggior parte di loro l’ha fatto”. Durante ogni escalation, Zohar pensava ai bambini indifesi a Gaza, alla gente senza riparo. “Devo confessarti una cosa: quell’empatia, l’ho persa. E in un certo senso, è la cosa più triste per me, perché senza quella non mi rimane più nulla”. Cosa resta, chiediamo a Zohar prima di lasciarla alla nuova routine da appartamento e da città, della fiducia nell’esercito? “È una domanda difficile, perché l’esercito siamo noi. Mio padre era un generale. Io sono stata miluim, riservista. Ci sono cresciuta dentro Tsahal e parlarne male è quasi come imprecare. Eppure capisco che dovremo lavorare molto per ricomporre la completa fiducia nel nostro esercito”. Da assistente sociale, dice anche di aspettarsi che il momento più duro sarà il ritorno a Reim: “E’ allora che l’assenza delle persone sarà più dolorosa”. Ma si sente di azzardare una previsione. Che la maggior parte della comunità tornerà al kibbutz. “E penso addirittura che più persone si uniranno a noi. Non so da dove prendo questo ottimismo, ma penso che sarà così”.

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