fuori Gaza

La guerra cambia, arriva il terrore dello stallo e Israele addestra i soldati contro Hezbollah

L'interrogativo che affligge la società viene ormai riportato nei titoli dei maggiori quotidiani israeliani: accordarsi sugli ostaggi vuol dire perdere la guerra? Non c'è risposta

Micol Flammini

Netanyahu si oppone ai piani americani per la Striscia, dice che la sua èra non è finita e che porterà il paese alla vittoria, ma è il suo partito che inizia a sussurrare: il premier è finito. L'esercito cambia la strategia a Gaza e si organizza per gli altri fronti: Libano, Cisgiordania e anche dalla Siria sono stati lanciati tre razzi

Nitzan Alon è il generale israeliano che si sta occupando di tutte le informazioni di intelligence che riguardano gli ostaggi, non ne trapelano molte, lavora incrociando le informazioni dei soldati nella Striscia e quelle dei prigionieri liberati due mesi fa. Ieri Israele si è tinta di arancione per ricordare che uno degli israeliani sequestrati, Kfir Bibas, il bambino dai capelli rossi, ha compiuto il suo primo anno di vita in prigionia. Hamas avrebbe dovuto liberarlo durante la tregua di novembre, ma non l’ha fatto e, quando i combattimenti sono ricominciati, ha pubblicato un video: camera fissa sul padre di Kfir – anche lui in ostaggio  – un terrorista gli dice che sua moglie e i suoi figli sono stati uccisi dalle bombe israeliane. Non ci sono prove, solo la perversione di mostrare la sofferenza e utilizzarla per fare pressione sulla società israeliana. La guerra a Gaza è cambiata e l’esercito ha deciso che la presenza dei soldati non sarà costante, entreranno e usciranno, a seconda della necessità.  Una zona particolarmente fortificata verrà disposta al confine, da lì partiranno gli attacchi non appena arrivano le evidenze di un tunnel da distruggere, di postazioni per lanciare razzi da eliminare. Le infrastrutture di Hamas rimangono molte, gli uomini anche, ma restare dentro per i soldati è rischioso. Il timore di uno stallo nella  guerra  è concreto, i soldati rischiano di essere sempre più soggetti ad azioni di guerriglia, a trappole, andare dentro e fuori dalla Striscia è il rimedio per bilanciare le necessità di un conflitto iniziato per obiettivi non ancora raggiunti e una guerra che si allunga tanto da far temere l’arrivo di un punto morto.

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ieri ha tenuto una conferenza stampa. Un tempo parlava con il ministro della Difesa Yoav Gallant e il leader di Unità nazionale Benny Gantz al suo fianco, ma adesso va da solo, a dimostrazione di quanto mettersi d’accordo con lui  sia sempre più difficile. Il premier ha detto che, finché ricoprirà il suo ruolo, non ci saranno compromessi sulla vittoria, e sul futuro della Striscia ha preso le distanze dal piano degli Stati Uniti, dicendo che dovrà essere Israele a occuparsi della sicurezza dentro Gaza e non ci sarà uno stato palestinese. Il dopo Netanyahu è sempre più chiacchierato, il Likud, il partito del premier, un tempo blindatissimo e coeso attorno al leader indiscusso, rilascia indiscrezioni sulla fine dell’èra Bibi: non era mai accaduto che fossero i suoi a vederlo come un intralcio. La fine dell’èra Bibi non coinciderebbe con la fine della guerra, sul portare avanti l’offensiva c’è unità e l’esercito ha gli occhi ben aperti su tutti i fronti: Gaza, Cisgiordania, Libano e ieri anche dalla Siria sono stati lanciati tre razzi. Le truppe spostate da Gaza in via definitiva – non quelle che saranno disposte al confine – vengono dislocate sulle altre frontiere e vengono riaddestrate per scenari di guerra molto diversi. Combattere con Hezbollah in Libano o con Hamas in Cisgiordania sarebbe molto diverso dalla guerra a Gaza,  i soldati si devono preparare a un conflitto con i miliziani sciiti e al caos dai territori di Ramallah. 

L’interrogativo che affligge la società viene ormai riportato nei titoli dei maggiori quotidiani israeliani: accordarsi sugli ostaggi vuol dire perdere la guerra? Non c’è risposta, solo la consapevolezza che il prezzo sarà comunque molto alto. Dopo aver fatto naufragare l’accordo di novembre che aveva permesso la liberazione di centodieci prigionieri  catturati il 7 ottobre, Hamas sembra intenzionato a far saltare anche il fragile patto stretto con la mediazione del Qatar, che prevede la consegna di medicine agli ostaggi. Ieri la Croce Rossa ha smentito i rapporti per i quali si sarebbe incaricata di far arrivare i medicinali fino ai prigionieri. La consegna è nelle mani del ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.