L'operazione

La spia inattesa che ha inferto il primo colpo al nucleare iraniano

Francesco Gottardi

Secondo un'inchiesta di Volskrant fu un ingegnere civile olandese, impiegato dai servizi segreti americani e israeliani, a sabotare il programma atomico iraniano nel 2008

Secondo il Volkskrant, fu un ingegnere civile olandese, impiegato dai servizi segreti americani e israeliani, a sabotare il programma atomico iraniano nel 2008. Il Volkskrant è un’autorevole testata dei Paesi Bassi che ha terminato un’inchiesta durata due anni con 43 persone coinvolte – di cui 19 dell’intelligence di Amsterdam, pubblicando  una notizia di portata globale, perché fino a oggi si riteneva che a introdurre il  virus Stuxnet nella centrale nucleare di Natanz fosse stata una chiavetta usb nelle inconsapevoli mani di un cittadino di Teheran. Invece quella persona proveniva da un paese terzo, coinvolto a sua insaputa in una azione  di guerra digitale. Quella persona ha nome e cognome: Erik van Sabben, nato a Vlissingen, Olanda occidentale, nel 1972. E’ morto a gennaio 2009 in un incidente motociclistico a Dubai. Appena due settimane dopo l’attivazione del virus.

 

Nei primi anni Duemila, gli Stati Uniti e Israele avevano intuito l’importanza di rallentare il progetto nucleare dell’Iran: era stato il capo del Mossad Meir Dagan a prendere l’iniziativa insieme alla Cia. Soltanto nel 2010 il resto del mondo avrebbe scoperto Stuxnet: una primordiale cyber-arma, costata oltre un miliardo di dollari e capace di danneggiare la produzione iraniana di uranio arricchito. Le conseguenze geopolitiche sono state enormi, su più fronti. In seguito all’hackeraggio di stato, nel 2015 l’Onu ha stabilito i primi standard internazionali – giuridicamente non vincolanti – per un comportamento responsabile nel dominio digitale. Ma soprattutto, si stima che il virus abbia ritardato il piano nucleare della Repubblica islamica di diversi anni: un risultato cruciale. Ma in tutto questo, cosa c’entrano l’Olanda e van Sabben?

 

Ebbene, l’equazione tracciata dal Volkskrant è semplice: nel 2007 gli americani mettono a punto i dettagli del sabotaggio, sanno però che nessun agente della Cia o del Mossad può introdursi con successo nelle centrali iraniane strettamente sorvegliate. Serve un infiltrato. Un insospettabile. E chi meglio di un ingegnere della Zelanda  che dietro l’ordinaria vita dell’impiegato negli Emirati Arabi nasconde dal 2005 una collaborazione col Mivd – l’intelligence militare di Amsterdam? La scelta ricadde su van Sabben anche perché si era risposato con una donna iraniana ed era già pratico di “rischiosi affari” a Teheran, camuffandosi da impiegato di una  ditta di trasporti. Ed ecco l’inganno che oggi imbarazza i palazzi del potere olandese: di tutto questo, il governo dell’Aia non era minimamente al corrente. E i servizi poco di più. Gli ex agenti del Mivd spiegano al quotidiano che all’epoca i rapporti con la Cia erano di leale collaborazione, tali da non destare sospetti sul prestito di un loro agente per una certa missione in Iran. Senza conoscerne i dettagli. In altre parole, “gli americani ci hanno usato”.

 

Il grado di consapevolezza di  van Sabben riguardo l’operazione  è tuttora ignoto. Il Volkskrant aggiunge un altro dettaglio rilevante: il contagio potrebbe non essere avvenuto via usb. Fatto sta che quel viaggio a Teheran nel dicembre 2008 doveva durare dieci giorni,  il tempo di una visita ai parenti della moglie dell’ingegnere. Dopo il primo giorno invece, racconta ora la famiglia, van Sabben “era sconvolto e insistette per lasciare il paese immediatamente”. E per quanto le dinamiche della morte fuori strada non abbiano mai indicato nulla di diverso dall’incidente, alcune voci del Mivd oggi dicono che  “Van Sabben ha pagato un prezzo alto”

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