Iran underground. I tunnel delle armi e delle centrifughe atomiche

Le città sotterranee sono una tradizione antica. I jet russi in arrivo, i calcoli di Israele e le interviste a specchio del capo della Cia e di quello dei pasdaran

Cecilia Sala

Per la bomba atomica servono tre cose: Teheran ne ha quasi due. Della base "Oqab 44" i satelliti vedono dove inizia il tunnel, non dove finiscono le armi. In superficie c'è la sagoma di un caccia russo che la Repubblica islamica non dovrebbe possedere

"Oqab 44" è una nuova base militare iraniana costruita in profondità che è stata presentata come la prima per dimensione e garanzie di sicurezza capace di ospitare molti aerei. “Oqab” in farsi significa “aquila”. Il 7 febbraio l’aviazione iraniana ha diffuso un video: la colonna sonora è da videogioco e la telecamera è posizionata perfettamente al centro di un tunnel sotterraneo, la regia è una citazione esplicita delle prospettive di Stanley Kubrick. Le luci sono quelle azzurrine dei neon e i muri sono di cemento, in fondo c’è un cancello con dipinta sopra la bandiera della Repubblica islamica e, in mezzo, lo stemma dell’aeronautica militare. Le inferriate si aprono lentamente e si vede una sorpresa: c’è un aereo da combattimento, un biposto lungo più di venti metri con due motori, poi la telecamera si muove al ritmo della musica e compare un murales che raffigura una squadra di velivoli militari iraniani tra i quali spicca un modello che – a quanto ne sappiamo – l’Iran non dovrebbe possedere. E’ un Sukhoi 35 ed è più potente e moderno dei caccia che sono ufficialmente in dotazione alla Repubblica islamica. In teoria il Su-35 ce l’hanno solo la Federazione russa e la Repubblica popolare cinese, 110 la prima e 24 la seconda. Un Su-35 vale più di quaranta milioni di dollari mentre i modelli sovietici o autoctoni che l’Iran ha nel suo inventario militare al massimo la metà.


La televisione degli ayatollah presenta la Oqab 44 come una base segreta, ma è vero solo in parte. I satelliti europei e americani hanno visto il cantiere in tempo reale, appena gli escavatori iraniani hanno cominciato a spostare la sabbia e i sassi. La base è a centoventi chilometri da Bandar Abbas, in una zona disabitata della provincia di Hormozgan. E’ nel sud del paese e pericolosamente vicina allo stretto di Hormuz, dove passano la gran parte delle esportazioni di petrolio nel mondo e dove c’è la Quinta flotta della Marina americana. Secondo l’analista Farzin Nadimi, un esperto di Difesa iraniana che lavora per il think tank sul vicino oriente del Washington Institute: “Quella struttura sembra pensata per delle missioni che abbiano l’obiettivo di interdire a sorpresa i movimenti della Quinta flotta statunitense, e non solo, nei mari della regione del Golfo Persico”.

Il cantiere a un certo punto finisce dentro la roccia e noi conosciamo solo l’inizio di quel tunnel, non sappiamo quanto è profondo, se la strada coperta poi curva, a che altezza e in quale direzione. Di conseguenza non sappiamo con precisione dove siano le armi. Nella porzione visibile, quella del cantiere in superficie, parcheggiato accanto a un Su-24 c’è la sagoma di un altro aereo che corrisponde perfettamente alla nuova generazione dei Su-35. Chris Biggers ha lavorato per anni come esperto in analisi delle immagini satellitari per il governo degli Stati Uniti, da tempo si è messo in proprio e ora la sua società – la Hawk Eye 360 – ha realizzato un’indagine per il New York Times. Biggers ha concluso che sì, quella è sicuramente la sagoma di un Su-35, ma non significa necessariamente che quello sia proprio un Su-35. Da settembre si parla insistentemente dell’ipotesi che Mosca ricambi il supporto militare che sta ricevendo dall’Iran per condurre la sua guerra di aggressione all’Ucraina (i droni Shahed, quelli Mohajer, gli istruttori iraniani in Crimea, i preparativi per costruire una linea di produzione di droni direttamente in Russia) con una spedizione di ventiquattro caccia Su-35 a Teheran. Per il momento non c’è nessuna prova che la consegna sia avvenuta: il Cremlino non ha mai riconosciuto ufficialmente lo scambio e, soprattutto, difficilmente lo spostamento di una simile quantità di questa tipologia di aerei sarebbe sfuggito al monitoraggio della comunità internazionale. Le ipotesi sono due: la prima è che agli ingegneri militari iraniani sia stato ordinato di progettare un fantoccio di Su-35, cioè che l’aereo visto dai satelliti sia finto e pensato solo per ingannare e spaventare occidentali e israeliani. La seconda – e più quotata – ipotesi è che la nuova base Oqab 44 sia destinata a proteggere i nuovi Su-35 che arriveranno entro la fine dell’anno, ma che – per ottenere una base davvero cucita su misura del nuovo aereo – servisse da subito un simil Su-35 da manovrare all’interno del tunnel per progredire nella costruzione. 


Gli iraniani hanno un’antichissima ossessione per le città sotterranee. L’isola-città iraniana di Kish, nel Golfo Persico, ha due facce: una sopra e una sotto la superficie. La parte sotterranea si sviluppa per 10 mila metri quadrati ed è confortevole perché quella di Kish è una zona molto arida, ma in profondità c’è sia l’acqua sia il fresco. Nella provincia di Isfahan, al centro dell’Iran, c’è la città sotterranea di Nushabad. E’ un labirinto composto da tre piani di tunnel costruiti tra i tre e i diciotto metri di profondità. Nushabad ha millecinquecento anni ma le condotte d’aria sono perfettamente funzionanti così si può ancora girare all’interno, i persiani della zona l’hanno sempre usata per proteggersi dalla guerra e dal sole. Le costruzioni sotterranee di oggi non vengono riempite di magazzini e di pozzi ma di armi, però gli ayatollah fanno continuamente riferimento a questa tradizione antica con cui tutti gli iraniani hanno consuetudine e infatti le chiamano “città” anche se sono basi militari. A marzo 2021 i Guardiani della rivoluzione islamica – la forza paramilitare parallela, ma più potente, dell’esercito regolare – avevano appena finito di costruire la propria “città dei missili” sotto terra. Nel gennaio del 2022, alcuni ufficiali iraniani sono andati a bussare a casa di un giornalista della televisione di stato, gli hanno offerto uno scoop, gli hanno detto di prendere la telecamera e poi lo hanno fatto salire su un minivan dove gli hanno messo un cappuccio nero in testa. Così noi abbiamo visto per la prima volta le immagini di un’altra base militare semi segreta che in questo caso, invece di aerei o missili, ospita i droni. Secondo le indiscrezioni che circolano a Teheran, sarebbe nascosta da qualche parte dentro la catena montuosa Zagros che corre lungo la costa del Golfo Persico. Il giornalista è stato trasportato bendato in elicottero dalla città di Kermanshah, nel nord ovest del paese vicino al confine con l’Iraq, il viaggio è durato quarantacinque minuti e quando gli sono state tolte le bende dagli occhi era dentro un tunnel della “Base strategica 313”. 


Le città militari sotto la superficie servono a ripararsi dagli occhi dei satelliti e dagli attacchi esplosivi come quello di un mese fa a una fabbrica dell’industria militare di Isfahan da parte del Mossad. E, in prospettiva, dall’ipotesi di bombardamenti meno esemplari e più massicci dell’aviazione israeliana. Nel sottosuolo, la Repubblica islamica nasconde le armi convenzionali come il suo programma nucleare. L’intelligence americana e israeliana dall’estate scorsa monitorano giorno per giorno i progressi nella costruzione di una rete di tunnel a sud del sito nucleare di Natanz e a esso collegata. E’ sufficientemente in profondità da poter resistere sia agli attacchi hacker sia alle bombe anti bunker. 

La settimana scorsa gli esperti dell’Agenzia atomica internazionale dell’Onu hanno detto che sono state trovate tracce di uranio arricchito all’84 per cento nelle centrali atomiche iraniane: per il nucleare per scopi clinici e per tutti gli altri scopi civili è sufficiente una purezza dell’uranio sotto il 5 per cento, per la bomba atomica serve il 90 per cento. Prima del ritrovamento di particelle pure all’84 per cento, la Repubblica islamica arricchiva ufficialmente l’uranio al 60 per cento. Questa settimana potrebbe esserci una visita a Teheran del capo dell’Agenzia atomica Raphael Grossi, ma – secondo gli esperti – se la visita ci sarà, la sua funzione sarà prettamente diplomatica (farsi vedere lì per calmare le acque), e non tecnica (indagare meglio cosa succede nelle centrali atomiche). Bisogna considerare sia le “città” sotterranee delle armi convenzionali sia quelle del programma atomico all’interno di uno stesso quadro. Il capo della Cia William Burns, nell’intervista che ha dato al programma “Face the Nation” della Cbs il 25 febbraio, ha parlato di: “enrichment, weaponization, and delivery” – arricchimento (dell’uranio), capacità di trasformazione dell’uranio arricchito in un’arma (la bomba atomica), capacità di lanciare la bomba atomica. Rispetto al primo punto la Repubblica islamica è sostanzialmente già pronta. Sull’ultimo punto, il “delivery”, cioè le tipologie di armi su cui sarebbe eventualmente possibile montare l’atomica per trasportarla a destinazione: fa ricerca, progredisce e organizza dimostrazioni di forza. Mentre Burns parlava alla Cbs, in Iran andava in onda un’intervista al capo dell’aeronautica dei pasdaran, Amir Ali Hajizadeh, che presentava il nuovo missile iraniano “Paveh” in grado di colpire a 1.650 chilometri, commentando questa caratteristica con le parole: “Una distanza che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni”. Intendeva dire: il missile Paveh ha Israele nel suo raggio di azione. L’Iran dispone già di molti missili balistici in grado di colpire Tel Aviv, ma ogni scusa è buona per rinnovare la minaccia. Burns però è stato chiaro su una cosa: Teheran non sta lavorando al punto due, a rendere tutto quell’uranio arricchito quasi in purezza un’arma. Ha detto: “Sono ancora lontani”. E poi che, secondo le informazioni di cui dispone la Cia, l’Iran non ha preso la decisione di “riprendere il programma di armamento” (del suo uranio arricchito) che aveva interrotto nel 2003. Non è una novità, i funzionari americani non hanno mai sostenuto che Teheran lo avesse fatto, ma non avevano neanche mai sottolineato il contrario in modo così esplicito. Le rassicurazioni di Burns sul punto arrivano con l’avvicinarsi di una scadenza.

 
Un passo indietro: a dicembre del 2021 l’allora ministro della Difesa israeliano Benny Gantz aveva ordinato di preparare un piano per bombardare i siti nucleari iraniani e i vertici dell’Aeronautica avevano spiegato che i nuovi fondi pubblici sarebbero stati destinati a questo. Negli stessi giorni, a metà dicembre 2021, Israele chiedeva con insistenza agli Stati Uniti di consegnargli otto aerei KC-46 – per un valore di due miliardi e mezzo di dollari – che Israele aveva preordinato. I KC-46 sono aerei che servono ai jet da combattimento per poter fare benzina in volo e sono considerati cruciali per qualsiasi ipotetica operazione militare dell’aviazione israeliana in Iran. Washington aveva risposto che non ne avrebbero visto neanche uno prima del 2024, che oggi è molto più vicino. 

Oltre alla possibilità del rifornimento in volo, per colpire i siti nucleari Israele dovrebbe accecare le difese aeree della Repubblica islamica e difendersi dai jet da combattimento di Teheran, Su-35 compresi. E’ in discussione anche se gli aerei di cui dispone oggi Israele siano sufficientemente massicci da trasportare bombe anti bunker abbastanza grandi e pesanti da distruggere molti strati di roccia fino a raggiungere le città sotterranee d’Iran: secondo molti analisti, al momento, no. Le armi più massicce sono l’altra richiesta a Washington dopo i KC-46. Uno dei modi in cui è stata letta l’intervista di Burns è che l’intenzione di fornirle, almeno al momento, almeno dal suo punto di vista, non ci sia. 

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