Da Ankara
La tv turca trasmette la narrazione antisemita di Erdogan
Il presidente turco usa le telenovelas per legittimare il suo potere e creare un legame con i leader del passato. Da Abdülhamid II a Saladino, la rievocazione dell’antisemitismo per sedurre il mondo musulmano
Al di là della propaganda a uso e consumo interno per tenere cementato attorno al suo partito e alla sua persona l’elettorato conservatore-islamista, vi è un fattore, molto rilevante, per comprendere cosa spinga Recep Tayyip Erdogan a riportare a zero, dopo appena un anno dalla riconciliazione, le relazioni con Israele. È la sua fascinazione per il sultano della tarda epoca ottomana, Abdülhamid II che regnò per 33 anni, fino alla sua deposizione da parte della rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908. Il “Grande Sovrano” (“Ulu Hakan”), venerato da Erdoğan e dalla generazione di islamisti di cui lui fa parte, si oppose alla fondazione dello stato ebraico nella provincia ottomana della Palestina, come proposto dal Congresso sionista mondiale all’inizio del XX secolo.
Per gli islamisti turchi Abdülhamid rappresenta la nascita del panislamismo e dell’Impero che non si è voluto piegare agli interventi occidentali. Ed Erdogan è visto come colui che incarna questa continuità. Gli islamisti turchi sono convinti che il rovesciamento di Abdülhamid sia stato orchestrato da una cospirazione ebraica e che la repubblica laica che ne seguì fu progettata per neutralizzare l’influenza turca nel mondo musulmano. Non è un caso che l’accusa che spesso il presidente rivolge ai repubblicani in patria è di tradimento per aver assecondato la spinta occidentalizzatrice che provocò la deposizione del sultano e dunque la devastazione dell’Impero subito dopo la prima guerra mondiale. Secondo questa interpretazione il processo di modernizzazione e di secolarizzazione operato negli ultimi 200 anni (con l’eccezione appunto dell’epoca del sultano ottomano Abdülhamid II) non sarebbe stato altro che un tradimento storico contro l’identità musulmana della nazione.
Per Erdogan la creazione di una “Nuova Turchia” che superi la Repubblica laica fondata dai kemalisti, è una missione per “correggere i mali della storia’’ nell’interesse della sicurezza e dell’identità nazionale del paese e dunque non può esserci spazio per alcuna opposizione politica. Con il ventennio erdoganiano, Abdülhamid II, campione dell’islam contro il cristianesimo “infedele” e propugnatore del “panislamismo”, è tornato dunque a far parte della cultura popolare turca e la sua opera è citata come in un mantra in tutti i comizi del presidente. In questi ultimi anni sono numerosi i drammi televisivi che esaltano la sua figura. Sono numerose le conferenze sponsorizzate dal governo turco sulla vita del defunto sultano. Nelle soap-opera trasmesse dalle tv turche appare evidente il parallelismo che si traccia tra la vita di Abdülhamid II ed Erdogan, facendo intendere che se l’attuale presidente della Turchia dovesse perdere il potere, il paese si disintegrerebbe come si disintegrò l’Impero ottomano. Per questo Abdülhamid ed Erdogan vengono celebrati anche in un libro di grande successo come “I due guardiani della Mezzaluna”.
Il leader turco partecipa regolarmente a tutte le numerose conferenze che il governo organizza sul sultano e visita periodicamente la sua tomba e consiglia ai giovani di guardare “L’ultimo imperatore”, un docudramma revisionista sulla vita del sultano, con marcate sfumature antisemite, in onda sull’emittente statale TRT1. Il blockbuster televisivo è stato classificato come la migliore serie televisiva storico-drammatica turca. In interminabili puntate di tre ore, si propone una visione del mondo cospiratoria e antisemita, sorprendentemente simile a quella proposta dal presidente Recep Tayyip Erdogan, secondo la quale stampa libera, laicità e democrazia sono valori importati da potenze straniere, da minoranze religiose e liberali senza Dio e in definitiva vengono rappresentate con accezioni negative e cioè come elementi che erodono l’identità nazionale, turco-islamica, l’onore e la sicurezza del paese. In una scena, frutto dell’immaginazione del produttore, Abdülhamid urla al barone Abraham Edmond Benjamin James de Rothschild, in missione per convincere la Sublime Porta a consentire l’immigrazione ebraica a Gerusalemme, “Gerusalemme vale più di qualsiasi cosa tu possa offrire. Gerusalemme è il nostro harem!”.
A novembre, a un mese e mezzo dal 7 ottobre, l’emittente statale turca, TRT1, trasmetteva un nuovo docudramma intitolato “Saladin: il conquistatore di Gerusalemme”. Esalta la vita del Saladino, il fondatore della dinastia ayyubide che guidò l’esercito islamico contro i crociati, conquistando Gerusalemme nel 1187 e stabilendo il dominio musulmano nella regione. Il giovane e affascinante attore Ugur Günes, che interpreta il personaggio del Saladino, ha espresso il suo orgoglio nel rappresentare una figura che a suo dire era piena di misericordia e di giustizia. Saladino era nato nel 1138, in un villaggio curdo di Takrit, sul fiume Tigri, in Mesopotamia e fu sultano dell’Egitto e della Siria negli ultimi decenni del 12° secolo. Fu citato anche da Dante nella Divina Commedia, nel quarto canto dell’Inferno, tra gli spiriti di grande valore, tra coloro che pur senza specifiche colpe non poterono salvarsi perché vissuti prima del cristianesimo o fuori da esso.
“Le città della Palestina non sono diverse dalle nostre città e Gaza è una parte inseparabile della nostra patria”, ripete Erdogan in ogni occasione pubblica. In questi docudramma il movimento sionista che si riunì a Basilea nel 1897 chiese l’aiuto dell’Impero britannico, che all’epoca era lo stato più potente, ma le loro richieste non furono prese sul serio. Col tempo, l’impero si rese conto che questo movimento ebraico stava guadagnando forza e offrì loro territori, come l’Uganda, la Siberia e Cipro, ma essi non acconsentirono. Volevano la Palestina, che ospitava centinaia di migliaia di arabi, che era la terra promessa menzionata nella Torah. Nel 1900, il sultano Abdülhamid II limitò a 30 giorni la permanenza degli ebrei nel territorio palestinese e proibì inoltre agli ebrei stranieri l’acquisizione di territori nell'impero ottomano, compresa la Palestina. Theodor Herzl, leader del movimento sionista, chiese un’udienza al sultano Abdülhamid II. Quando questa richiesta fu rifiutata, nel maggio 1901 offrì al sultano tramite il suo caro amico, il polacco Phillip Newlinski, la disponibilità di pagare i debiti esteri degli ottomani e di fare propaganda per lui in Europa in cambio dell’apertura al trasferimento del popolo ebraico. Ma i Giovani Turchi detronizzarono Abdülhamid II che nel 1909 fu imprigionato a Salonicco nella casa di un banchiere ebreo chiamato Allatini.
In una lettera di Abdülhamid II, datata 22 settembre 1913, il sultano rispose alle richieste del Regno Unito: “Anche se mi offriste non 150 milioni di oro britannico, ma tutto l’oro del mondo intero non venderei mai la nostra terra musulmana, frutto della nostra conquista. Non accetterei mai che sulle terre dello stato ottomano possa sorgere una entità non islamica”. È da allora che il sultano Abdülhamid è rimasto una figura molto amata nei paesi arabi e il suo nome è menzionato nelle preghiere del venerdì. Non sorprende dunque che Erdogan non perda occasione per descrivere il conflitto in medio oriente utilizzando una narrazione che contrappone “la croce alla mezzaluna”. È convinto che il conflitto arabo-israeliano sia centrale per le ambizioni regionali della Turchia. Le infuocate invettive del leader turco contro Israele, accusato di essere uno “stato criminale” per la sua operazione militare antiterroristica a Gaza, sono dunque un misto di propaganda a uso interno e di una forte e dominante impronta ideologico-culturale che affonda le radici nel marchio di fabbrica di politico con background islamista che a partire dagli anni ‘70 si è nutrito della visione del padre dell’islam politico turco, Necmettin Erbakan, suo mentore antisionista, antisemita e panislamista, il cui obiettivo era quello di plasmare la società turca secondo un nuovo ideale “suprematista dell’identità turco-islamica”.
Il conflitto israelo-palestinese è stato a lungo il fulcro della politica estera della Turchia e corrisponde alla visione di Erdogan dell’ “eccezionalismo turco” e alla necessità di dare priorità alla “geografia ottomana”. Il presidente ritiene che il suo destino sia quello di far rivivere i giorni di gloria del passato imperiale perduto e sa che questo è il sogno che alberga nel cuore della sua ampia base elettorale e dei circoli del nazionalismo islamista e panislamista e vede la difesa della “causa palestinese” come un mandato storico e come proiezione di una presunta “missione civilizzatrice” turca in medio oriente. Il leader turco si propone come continuatore della visione di Abdülhamid II, della protezione dello spazio ex ottomano e come leader di una immaginaria lega di diseredati con la responsabilità di proteggere gli oppressi del mondo musulmano. Si propone come alleato dei paesi del sud globale assecondando una retorica islamista secondo cui il sottosviluppo sarebbe un prodotto del colonialismo occidentale e del persistente sfruttamento da parte di potenze straniere. Per questo Erdogan parla di “Geografia del cuore”, in riferimento alla geografia in cui si è affermato l’islam. Parla di un islam umanitario, a fianco di coloro che soffrono. L’Akp di Erdogan è mobilitato nei Balcani, dall’Asia centrale all’Africa e addirittura fino all’America Latina, in una diplomazia che viene definita “morale”, “umanitaria”, che fa leva su sentimenti e sulla solidarietà di un “islam buono”.
Erdogan sa che le sue aspre e aperte critiche a Israele possono influenzare l’opinione pubblica in altre parti del mondo musulmano e mettere in difficoltà i leader arabi che intendono normalizzare le loro relazioni con Israele. L’impegno personale di Erdogan con medie potenze come l’Indonesia e i leader dell’Asia centrale e dell’Africa mirano a consolidare i sentimenti antisraeliani nel sud del mondo, a isolare ulteriormente il governo Netanyahu e a spaccare l’Europa dove le comunità musulmane nutrono simpatie per il leader turco e vedono i governi occidentali come complici di Israele. L’eredità ottomana su Gerusalemme e il ruolo di Abdülhamid nel negare l’emergere di una entità ebraica sul suolo ottomano sono ora parte integrante della politica estera erdoganiana per il medio oriente. In questi drammatici giorni di guerra tra Israele e Hamas, il fantasma del sultano si aggira per l’Anatolia e infesta la politica turca.
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