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L'ape estone che protegge l'Europa al confine con Putin

Micol Flammini e Paola Peduzzi

A Luhamaa, a due passi dall’inizio della Russia, si costruisce una barriera. I controlli, i migranti, lo specchio con la Finlandia e il canto contro l’orso

Il 5 settembre del 2014, Eston Kohver, ufficiale del KaPo, il servizio di intelligence interno dell’Estonia, stava pattugliando il confine sudorientale del paese, nei pressi di Luhamaa. Lavorava sulle attività di contrabbando che in Estonia non sono soltanto un problema di commercio illegale, ma sono anche una questione di sicurezza. I servizi russi dell’Fsb tentano da sempre di coinvolgere i contrabbandieri in attività di spionaggio per ottenere informazioni importanti, dettagli che possano indebolire il vicino. Per questo i pattugliamenti sono frequenti e meticolosi. Kohver però, mentre portava a termine il suo giro lungo la frontiera, scomparve. Alcuni uomini lo circondarono, gli tirarono addosso dei fumogeni, lo aggredirono con un coltello e lo trascinarono fino all’altro lato del confine: in Russia. Nelle stesse ore, le comunicazioni radio al valico di Luhamaa furono soggette a disturbi e interruzioni. Kohver era stato rapito e il primo a confermare la sua presenza sul territorio russo fu l’Fsb. 

 

Comunicò che l’ufficiale si trovava a Pskov, che dal confine dista meno di cinquanta chilometri e ospita una base militare. L’Fsb disse anche che Kohver sarebbe stato processato per spionaggio, per passaggio illegale del confine russo e per trasporto di armi da fuoco. Kohver, in realtà, era stato aggredito e rapito. Venne processato e condannato a quindici anni, che non trascorse in prigione perché tra Russia ed Estonia fu concluso un accordo: uno scambio di prigionieri. Mosca avrebbe rimandato Kohver a Tallinn, in cambio di Aleksei Dressen, un ex ufficiale estone, fermato dalle autorità mentre cercava di fuggire in Russia dopo aver condiviso con l’Fsb informazioni riguardanti la sicurezza dell’Estonia che non potevano essere divulgate. Non agiva da solo, ma assieme a sua moglie, che fu condannata a sei anni, mentre lui ne avrebbe dovuti scontare sedici, se non fosse che, con Kohver in mano, i russi e gli estoni proposero lo scambio. I due condannati partirono dai lati opposti del ponte sul fiume Piusa, lo percorsero trattenendo il respiro e si ritrovarono da un lato all’altro della frontiera, ognuno con gli amici che si era scelto.  Non che gli estoni si siano mai sentiti sicuri con la Russia accanto, ma il rapimento fece pensare che quei confini tra le foreste, quelle strade in condivisione che a seconda della curva appartengono all’una o all’altra parte, erano una minaccia molto più grande di quanto avessero valutato. Così, dove non c’era altro che una foresta, hanno deciso di erigere una barriera, che verrà completata entro il 2025.  Abbiamo assistito all’inaugurazione di questo confine che si è fatto fisico, siamo andate a cercare le paure, i ricordi, le aspettative, e ci siamo fermate a Luhamaa a due passi dall’inizio della Russia. 

 

Il punto di tensione. Il checkpoint di Luhamaa è sempre meno trafficato, passano soltanto alcuni camion, tutti europei, quelli russi non passano più da queste parti. Ogni mezzo deve essere controllato per evitare che trasporti merci sanzionate, ma se sono sigillate, a volte basta un foglio che attesti il contrario. Bisogna fidarsi. Alcuni camion rimangono fino a tre giorni bloccati tra l’Estonia e la Russia. Ma il traffico è sempre meno intenso. Non è semplice, ci ha detto Aldis Avela, una delle guardie di frontiera, “bisogna avere un po’ di istinto, per le merci e per le persone: abbiamo appena rimandato indietro una macchina mezz’ora fa”. Ci mostra i documenti falsificati, le patenti finte, passaporti che sembrano dei libretti degli assegni. In tutta l’Estonia ci sono quattro checkpoint, tutti sono a conoscenza degli individui sospetti. 

 

A due passi dalla Russia. “Se sei russo e hai il visto turistico, puoi passare per l’Estonia soltanto se hai parenti che vivono qui, così noi possiamo verificare. Se cerchi di passare il confine dicendo che vuoi arrivare in macchina fino alla Germania, perché i tuoi parenti sono lì, non sei ammesso”. Ci conduce sicuro fino a due passi dal confine, sornione ci domanda: “Quanto vicino volete arrivare alla Russia?”. La nostra risposta è chiara e gli piace: “Il più possibile”. Ed eccoci qui, con la Russia davanti agli occhi, l’Europa alle spalle, a osservare uno spazio di terra in cui è impossibile riconoscere dove inizia il putinismo e dove finisce la democrazia. Aldis ci mostra che tra i due paesi c’è un cestino della spazzatura, è piccolo, sopra è disegnata una Z, il simbolo dell’invasione dell’Ucraina. La Z, sfacciata e immonda, fissa l’Estonia. Alvis la vede tutti i giorni dalle telecamere. “All’inizio della guerra di qui sono passati molti ucraini, subivano un lungo interrogatorio, arrivavano convinti che avremmo fatto lo stesso, si accorgevano subito di quanto basti un confine a cambiare tutto, ma gli ucraini lo sanno bene”. 

 

La barriera. Ma oltre ai checkpoint, tra le due nazioni c’è tutto il confine da sorvegliare e da proteggere. Ci inoltriamo verso Tserepi e, dietro al filo spinato appena sistemato, c’è la Russia. Il caso Kohver aveva già impensierito molto gli estoni, ma qualcosa è cambiato, l’esigenza di chiudersi si è fatta sempre più forte e l’Estonia si è sentita sempre di più il confine dell’Europa, il confine della democrazia. Le guardie di frontiera, ligie e immobili nonostante il gelo, trascorrono le ore guardando verso la Russia, osservano i movimenti, fanno sentire la loro presenza. Non hanno contatti con chi fa il loro lavoro dall’altra parte. Armi in mano, impettiti, sanno che sono lì non tanto perché temono di veder arrivare il nemico a invadere, la guerra non si prepara in un giorno, ci ha detto un colonnello estone, ma per prevenire altri tipi di guerra. L’Estonia è continuamente bersaglio di attacchi cyber, chiamate alle scuole per allarmi bomba, ha paura per le sue infrastrutture energetiche e teme che quello che sta accadendo in Finlandia con i migranti portati dalla Russia alla frontiera possa ripetersi qui. 

 

I migranti. Non c’è nazione a cui l’Estonia assomigli di più, la Finlandia è una sorella. Le due si guardano in faccia, Tallinn e Helsinki sono uno specchio l’una per l’altra e durante l’occupazione sovietica, per gli estoni la vicinanza dei finlandesi è stata fondamentale: Tallinn poteva captare le trasmissioni finlandesi, aveva così un contatto con la libertà, veniva distribuito in Estonia un opuscolo comunista finlandese che dava anche informazioni sui programmi in tv, gli estoni lo compravano per questo, non per l’ideologia, e si accalcavano attorno ai televisori disponibili in città come se fosse un rito da compiere tutti insieme, una seduta spiritica con l’al di là, l’altra sponda, quella della democrazia. Ma venendo ai nostri giorni, quello che teme adesso l’Estonia è che ai suoi confini inizino ad arrivare dei migranti spinti dalla Russia. Ha già visto i metodi bielorussi con la Polonia e la Lituania, la Russia non sta facendo altrettanto, non spinge centinaia di persone al confine perché non vuole caos lungo le sue frontiere, ma su scala minore sta facendo qualcosa di simile. Quindi, si sono detti gli estoni, se è accaduto in Finlandia, accadrà anche qui: “Dovete capire che Mosca ragione con la strategia dell’effetto domino, inizia con uno e prosegue con gli altri”, ci ha detto il ministro dell’Interno Lauri Läänemets. Al checkpoint di Luhamaa, Alvis ci aveva raccontato che, se necessario, sono pronti a chiudere il confine. L’Estonia non aveva mai avuto problemi di immigrazione e l’arrivo di qualche decina di migranti non è un problema, ma crede che il gioco di Putin vada fermato comunque, perché non si può tollerare che si usino i migranti come arma.  “Anche in Italia è così”, ci ha detto il ministro Läänemets, “i migranti arrivano per quello che la Russia fa in Africa. Tutti noi dobbiamo dare delle risposte diverse, in Europa dobbiamo iniziare a pensare che l’immigrazione viene usata contro di noi dai regimi”. La soluzione che viene prospettata è la chiusura, sono le barriere. Ma c’è ancora un altro argomento che preoccupa l’Estonia: l’energia. 

 

Il tubo. A metà ottobre, il gasdotto che collega la Finlandia e l’Estonia è stato danneggiato. La maggior parte delle infrastrutture energetiche estoni si trova lungo il confine con Mosca, è un retaggio dell’Unione sovietica, di un sistema rimasto in piedi per talmente tanto tempo che non si è potuto smantellare del tutto, per quanto scomodo. I sismologi norvegesi dissero di aver rilevato una probabile esplosione, la Finlandia ha parlato di sabotaggio, e così hanno pensato in tanti dopo le falle al Nord Stream 2. Ma trovare i colpevoli è complesso e fuorviante, come si è visto con il gasdotto del fallimento tra Russia e Germania, e alla domanda a che punto sono le indagini, il ministro ci ha risposto: “Meglio chiedere ai finlandesi”. L’Estonia, dopo la Cina, è il secondo paese per estrazione di scisti bituminosi, un combustibile ad alto impatto ambientale, che il paese estrae dai tempi sovietici e gli impianti, anche questi, sono molto vicini alla Russia. Il ministro Läänemets per tutta questa infrastruttura ad alto rischio, ha una soluzione: “La rivoluzione verde, dice, non abbiamo scelta. Le rinnovabili sono una risposta alla Russia e noi possiamo contare sul vento, che ci consente anche di spostare gli impianti del futuro sulla costa occidentale”. 

 

Il confine della memoria. La Russia ha modellato molte delle scelte dell’Estonia, non puoi scegliere il tuo vicino, puoi solo sperare di essere fortunato e di averne uno poco fastidioso, e se invece il tuo vicino è la Russia occupi il tempo a pensare a proteggerti. Con i confini, la tecnologia, con la Nato e le truppe americane che sono aumentate di numero sul territorio estone, con i valori e anche con la memoria. Non ha nulla a che vedere con il perdono, ma qui la memoria viene esercitata per non dimenticare il significato di vivere sotto l’occupazione sovietica: qui Urss e Russia ora vengono utilizzate come sinonimi, anche se si parla del Cremlino di oggi. Per coltivare la memoria, a Tallinn, è stato costruito un memoriale per le vittime della deportazione in epoca sovietica. E’ un corridoio lungo che guarda il mare, e una delle più grandi ex prigioni del Kgb. E’ una passeggiata del ricordo con ai lati i nomi di tutti i caduti, per cui non c’è un posto di sepoltura, sono morti nei gulag, del loro destino si ha soltanto una data custodita negli archivi di Mosca. Ogni famiglia in Estonia ha qualcuno che ha subìto la deportazione, è una storia viva, che arde sotto la pelle. Gli estoni vengono qui ad accendere candele, ci sono più di settantamila nomi sulle pareti, è un cimitero, un luogo del ricordo e in tanti hanno lottato e cercato i documenti per far inserire i dati di un padre, di una madre, di un nonno su queste pareti per avere un luogo in cui poterli ricordare. Finita la passeggiata si arriva in un giardino, che adesso è innevato, ma in primavera è pieno di fiori, sono meli, tanto radicati nella cultura estone che il verso di una poesia recita: tornerò quando il melo sarà in fiore. Questo è un luogo di vita, in cui ci si ritrova e si ricorda.  Sul muro esterno del memoriale c’è il verso di una canzone “Vola verso l’alveare”. Sono tante le cose che gli estoni sanno fare bene, ma nel canto li battono in pochi. Sono il popolo dei festival musicali e anche l’indipendenza dall’Urss è passata per il canto. Martin Andreller è uno storico, un guardiano della memoria. Ci ha detto che stranamente, per un estone, lui non sa cantare, ma suo nonno era bravissimo e per questo venne deportato. Mentre era nell’Armata rossa insegnò ai suoi commilitoni i canti popolari estoni e i commilitoni, da tutta l’Urss, impazzivano per questa musica. Quando un generale se ne accorse, lo prese per un atto sovversivo: le canzoni popolari erano un modo per preservare le identità non russe, quindi andavano proibite. Venne mandato in un gulag, ma sopravvisse, tornò dopo la morte di Stalin. Forse avrà insegnato ai suoi commilitoni proprio le note di “Vola verso l’alveare”, di questo Martin non è sicuro, è uno storico e non fa supposizioni. Ma ci mostra che lungo la parete del memoriale è pieno di api scolpite nell’acciaio. 

 

Le api sono il simbolo degli estoni, e c’è una cosa per cui sono famose: come sono in grado di dare fastidio loro agli orsi, nessuno. Ora, gli estoni si immaginano come api, chi è l’orso, sceglietelo voi. Ed è tutt’altro che un caso. 

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