La nave israeliana Galaxy Leader sequestrata dagli houthi il mese scorso al largo di al Salif, nel Mar Rosso (foto Ansa)

Da Gaza al Golfo

Attacco houthi a un cargo diretto in Italia. Israele invia una nave nel Mar Rosso

Luca Gambardella

Altri missili lanciati dallo Yemen. Biden tra due fuochi: Riad chiede cautela, Gerusalemme un intervento deciso. "Dobbiamo agire con la nostra flotta", ci dice un ammiraglio israeliano

Alle 4 del pomeriggio di lunedì, un missile lanciato dallo Yemen ha colpito una nave norvegese che trasportava biocarburante e che era appena entrata nel Mar Rosso, navigando verso nord, in direzione di Suez. L’impatto ha scatenato un incendio a bordo della Strinda, questo è il nome della nave, che è riuscita a mettersi in salvo senza che i membri dell’equipaggio si ferissero. Come molte delle navi cargo in transito per quell’area e che fanno la spola tra Mediterraneo e sud-est asiatico, la Strinda era salpata dalla Malesia ed era diretta a Venezia, secondo la versione data dal suo proprietario, la Mowinckel Chemical Tankers.  

 

Dal 7 ottobre, i ribelli filoiraniani di Ansar Allah conducono dallo Yemen una guerra parallela a quella di Gaza contro le navi israeliane nello Stretto di Aden. Sull’episodio di lunedì hanno dato una versione diversa e funzionale alla loro propaganda anti israeliana. Hanno detto che la Strinda trasportava petrolio, ed è falso, che era una nave israeliana, ed è falso, e che era diretta verso una piattaforma israeliana, e anche questo è falso. Ciò che interessa agli houthi è creare il caos in un angolo di mondo attraversato per l’80 per cento da merci dirette in Europa. Per questo la settimana scorsa il loro portavoce aveva detto che senza la fine dei combattimenti a Gaza avrebbero chiuso il passaggio nello Stretto di Bab al Mandab (che in arabo significa “porta del lamento funebre”) alle navi cargo di ogni nazionalità, non più solo a quelle israeliane. 

 

Subito dopo l’attacco, i futures del Brent hanno registrato un aumento dei prezzi del petrolio pari a 31 centesimi, portando il prezzo a 76,34 dollari a barile, segno che i mercati guardano con preoccupazione all’instabilità in quello snodo strategico. Eppure, la minaccia iraniana – perché è Teheran il vero regista degli attacchi houthi – sembra suscitare più preoccupazione in Israele che altrove. Sabato, il presidente del Consiglio di sicurezza nazionale di Gerusalemme, Tzachi Hanegbi, ha avvertito che il tempo delle incertezze sta finendo. “Diamo ancora un po’ di tempo al mondo per organizzarsi e prevenire questi attacchi – ha dichiarato all’emittente Channel 12 – ma se non c’è un accordo globale, perché si tratta di un problema globale, agiremo noi per rimuovere questo assedio navale”. Un messaggio per gli Stati Uniti, accusati di usare un approccio troppo morbido contro l’Iran e gli houthi.

 

“Il problema è economico, perché il 25 per cento del commercio da e per Israele riguarda l’estremo oriente e transita attraverso il Mar Rosso e lo Stretto di al Mandab”, spiega al Foglio Shaul Chorev, già ammiraglio della Marina israeliana e attuale presidente dell’Haifa Research Center for Maritime Policy and Strategy dell’Università di Haifa. “Parliamo di circa 170 mila container importati dall’Asia e scaricati nei porti di Ashdod e Haifa. Poi c’è Eilat, l’unico punto di accesso di Israele sul Mar Rosso”. E’ questo il luogo più esposto agli attacchi di Ansar Allah e una delle vie di accesso commerciali su cui i governi israeliani hanno investito di più negli ultimi tempi. L’ultimo attacco missilistico degli houthi e sventato dalle difese israeliane contro il porto di Eilat risale a mercoledì scorso ma è da ottobre che il terminal è preso di mira. Oggi le sue banchine si sono svuotate di buona parte delle navi cargo che fino a qualche mese fa facevano scalo in questo angolo di terra lungo la rotta fra Europa e Asia. Oltre ai fertilizzanti e al petrolio, che da qui è esportato in Europa, il cuore delle attività di Eilat è il commercio di automobili importate dall’estremo oriente. A maggio, il colosso dello shipping cinese Cosco aveva aperto una rotta che faceva scalo qui per il trasporto di auto ibride ed elettriche – un settore in grande ascesa negli ultimi tempi – facendo concorrenza all’israeliana Zim, che di recente ha deciso di modificare la rotta delle sue navi circumnavigando l’Africa ed evitando gli attacchi dallo Yemen. 

 

Per Israele la sicurezza marittima è essenziale perché dal mare transita il 99 per cento dei suoi commerci. Tanto basta a spiegare l’urgenza con cui il premier Benjamin Netanyahu ha sottoposto il problema sia a Joe Biden sia ai leader europei in questi giorni. Gli Stati Uniti hanno risposto tentando di mettere in piedi una coalizione multinazionale. “Anche Israele dovrebbe fare la sua parte”, dice Chorev. Martedì, la nuova corvetta  modello Sa’ar-6, “Magen” è stata dislocata nel porto di Eilat, un primo piccolo passo. “Ma il governo è concentrato su Gaza e teme di disperdere le sue forze. La lezione del 1979 dello Yom Kippur, quando fu l’Egitto a chiudere la navigazione in quel tratto di mare, deve insegnarci che occorre fare qualcosa che finora non è stato fatto: inviare navi militari nel Mar Rosso e dare il nostro contributo per dimostrare agli americani l’urgenza della questione”, spiega l’ammiraglio.    

 

Per ora gli Stati Uniti temporeggiano e prestano più ascolto alle richieste opposte fatte dall’Arabia Saudita affinché si eviti un aumento delle tensioni contro houthi e Iran, per paura di una guerra regionale. Uno stallo che Israele non può tollerare a lungo. Per Chorev, le azioni difensive impiegate dalle navi americane non bastano più: “Servono attacchi preventivi per anticipare le aggressioni ai mercantili – dice – Solo così si impiegherà la deterrenza necessaria a convincere l’Iran a desistere”. Tutto dipende da cosa deciderà di fare Washington: accettare la sfida  o prestare il fianco a Teheran.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.