Dalla nostra inviata

Nello studio con i comici israeliani di Eretz Nehederet, si ride piangendo

Micol Flammini

L'ultimo sketch del programma satirico israeliano mira all'Onu e racconta il silenzio sulle violenze che sono state compiute contro le donne il 7 ottobre. La “rapestistence” e il sorriso a forma di smorfia

Tel Aviv, dalla nostra inviata. Luci basse, sorriso stretto tra le labbra. Al tavolo sono sedute due donne ben vestite e con aria contrita, messe  a debita distanza da un uomo con il volto coperto e il fucile in mano – l’attore confessa che ogni volta pensa di non sentirsela di interpretare un miliziano di Hamas, che è contento di nascondere il volto e di aver voglia di strapparsi via il passamontagna in fretta, ma qualcuno dovrà pur interpretare questo ruolo  in questo show in cui si piange ridendo e si racconta la storia di Israele mentre accade. Per l’ultimo appuntamento di Eretz Nehederet, che vuol dire Un paese meraviglioso –  è il verso di una canzone presa in prestito da Benjamin Netanyahu durante una campagna elettorale – gli autori hanno deciso di preparare un nuovo sketch in inglese. 

Le donne ben vestite e ben pensanti sono Sima Bahous e Sarah Hendriks, direttrice e vicedirettrice dell’agenzia dell’Onu preposta a tutelare i diritti delle donne. Al centro della satira di questo spettacolo nato più di vent’anni fa c’è la mancata condanna ferma da parte delle due riguardo alle violenze sessuali compiute da Hamas il 7 ottobre. Lo show inizia e le due signore preoccupatissime rassicurano il terrorista della loro completa comprensione e sgranano gli occhi quando lui  senza esitazione dice di aver violentato assieme ai suoi compagni diverse donne e che anzi ha anche i filmati e si offre di mostrarli. Le due, contrite, dicono di capire, ma preferiscono non vedere i filmati. Si raccolgono per qualche minuto a discutere di come giudicare le parole del terrorista che in modo compiaciuto ha ammesso le violenze. Discutono in modo animato, va trovata la formula. Ed eccola lì, deducono: “La commissione ha esaminato tutte le prove e non è stata violenza”. Il terrorista incredulo domanda: “Ah no, e cosa è stato”. Ed esce così l’invenzione verbale: “E’ stata rapesistence” – crasi tra rape e resistence, stupro di resistenza. Non può credere alle sue orecchie, il terrorista armato e pronto a mostrare le immagini di “rapesistence”. “Sì, risponde la finta Sarah Hendriks, è un atto di resistenza che si applica soltanto con le donne ebree”. Al miliziano non resta che gongolare e annuire, quel termine mette d’accordo tutti e tre, funzionarie dell’Onu e terrorista. “Mi piace rapesistence”, dice compiaciuta la finta Sima Bahous, “Metoo”, esclamano tutti in coro. Le due si guardano, hanno trovato il modo di non condannare le violenze di Hamas e l’uomo si alza ringraziando, concedendosi il lusso di ringraziare e di complimentarsi con le due funzionarie: “Oggi avete un aspetto delizioso”. Scandalo! Ma come? Non sa che nel 2023 questi complimenti non sono ammessi? Non conosce la loro gravità? Le due sono indignate, offese, si sistemano i vestiti e i capelli, come se la frase le avesse sconvolte, come se per un istante avessero l’impressione che quell’uomo qualcosa di sbagliato lo abbia fatto davvero: un apprezzamento nell’èra del Metoo. 


Soddisfatto e perplesso, il miliziano imbraccia il fucile, si alza, e mormora: “Hanno proprio ucciso i flirt sul lavoro”. Si spengono le luci, il sorriso scompare. Attori, autori, registi, il dietro le quinte di questo laboratorio del cordoglio non sanno più come descrivere la reazione internazionale. Hanno ironizzato sulla Bbc, sui ragazzi che nei campus americani canticchiano “from the river to the sea, Palestine will be free” (uno slogan che invita alla distruzione di Israele: dal fiume al mare la Palestina sarà libera),  invitando i terroristi a raggiungerli negli Stati Uniti. Raccontano attraverso la risata amara il mondo alla rovescia, incomprensibile, che non è in grado neppure di condannare lo stupro. Eretz Nehederet è uno specchio deformante. E la risata è una smorfia che fa male al cuore. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.