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contraddizioni

Gli stupratori di Hamas e le donne che proteggono Israele

Yasha Reibman

Da un lato i terroristi che hanno perversamente profanato il corpo delle donne ebree. Dall'altro il ruolo centrale delle donne israeliane, in prima fila nel conflitto. Eppure i movimenti femministi occidentali si ritrovano di fatto a sostenere un regime fondamentalista islamico che opprime prima di tutto le stesse donne

Il conflitto tra Hamas e Israele può essere raccontato sia come una guerra contro le donne sia come una guerra condotta dalle donne. Il 7 ottobre i terroristi di Hamas sono entrati a migliaia nello stato ebraico e, come noto, hanno stuprato, torturato, mutilato in massa le donne israeliane, le hanno poi trucidate o prese in ostaggio. Terroristi che sognano di diventare shahid, martiri, per essere accolti da 72 vergini in paradiso, hanno perversamente profanato il corpo delle donne ebree per farlo diventare uno strumento di guerra. Vi sono moltissime prove, in primis i video delle bodycam dei terroristi, i racconti delle sopravvissute, le istruzioni che sono state trovate nei vestiti degli uomini di Hamas e nei tunnel del terrore a Gaza, le confessioni dei terroristi catturati nei primi giorni. 

Allo stesso tempo, questa è anche una guerra condotta dalle donne. I primi carri armati israeliani intervenuti quella mattina avevano equipaggi al 100 per cento femminili, una prima volta nella storia militare. Le donne “tankistiot”, lasciato il confine con l’Egitto da loro presidiato, hanno puntato verso nord e schiacciato l’acceleratore. Hanno combattuto per diciassette ore consecutive, dando prova di coraggio e dove sono intervenute hanno tenuto testa in poche contro i molti. Dove hanno potuto, le soldatesse hanno arginato le migliaia di predoni che in altre zone per ore imperversavano, entrando in Israele per compiere il massacro sistematico e rientrando a Gaza a bordo di motociclette e jeep stracolme degli osceni trofei da esibire alla folla plaudente: donne sanguinanti, bambine e bambini, anziane sopravvissute alla Shoa. Nei caccia israeliani che hanno compiuto i bombardamenti mirati talora i piloti sono donne. In varie unità combattenti di terra, di mare e aviotrasportate, vi sono donne. Come donne erano le “tazpitaniot”, le ragazze che dietro agli schermi collegati a telecamere e vari sistemi di sorveglianza controllavano il confine tra Gaza e Israele; da mesi segnalavano strani movimenti, ma non erano state credute e anche quella stessa notte prima dell’alba avevano avvisato del pericolo incombente, ma ancora una volta erano state sottovalutate. Nelle ore del conflitto, mentre fuori dalle proprie postazioni infuriava la battaglia, queste ragazze non si davano alla fuga, ma restavano ai propri posti per comunicare in tempo reale cosa stesse avvenendo sul campo ai comandi centrali. 

Una strana ironia è quella dei terroristi che – sognando l’accoglienza delle vergini – vengono aiutati in questo progetto di sola andata verso la morte da un esercito che sempre più sta dando un ruolo in prima fila alle donne per difendere la vita. Intanto a Gaza, pare che la guerra abbia cambiato il rispetto che tra i palestinesi gli uomini nutrono verso le donne del proprio stesso popolo poiché colpiti dalla freddezza delle mogli in questo terribile frangente bellico; una di loro raccontava a Repubblica, “ora mio marito mi picchia di meno”. Negli ultimi anni vi erano state anche donne palestinesi terroriste: erano donne divorziate o colpevoli di altri “delitti”, come aver avuto rapporti extramatrimoniali o prematrimoniali, che per lavare l’onta e ridare onore alla propria famiglia decidevano di farsi esplodere contro gli israeliani. Rimane grottesco che i movimenti femministi occidentali non colgano il ruolo femminile sempre più paritario nell’esercito e nella società israeliana, non si accorgano dello stupro di massa del 7 ottobre e, nel condannare sempre e solo Israele, si ritrovino di fatto a sostenere un regime fondamentalista islamico che ha sottoposto le donne palestinesi a una crescente oppressione.
 

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