Henry Kissinger - foto Ansa

1923-2023

Kissinger è il padre dell'America first, quella vera

Matteo Matzuzzi

Le sconfitte e i grandi trionfi del realista che leggeva il “Faust”. Un grande amico della Cina, a patto che “non s’allargasse troppo”

Nel 1976, a Nobel per la Pace acquisito e a presidenza Nixon finita non nella gloria, a Kissinger fu chiesto di valutare i propri successi come statista. “Ho cercato di avere dei princìpi definiti chiari imperativi”, rispose. “Non c’è dubbio che Kissinger sia entrato alla Casa Bianca con una tale idea in testa, visto che aveva impiegato vent’anni a idearli e definirli”, dirà molto più tardi Niall Ferguson. Robert Kaplan l’ha definito l’erede – probabilmente l’unico – di Otto von Bismarck, l’unificatore della Germania nell’Ottocento e il politico spregiudicato che muoveva le alleanze in Europa come fossero le tessere di un domino, calcolando quando conveniva fare guerra e quando era più opportuno (e più utile al Reich) tendere la mano in segno di pace. Kissinger è stato un perfetto seguace della Realpolitik, anche se ha sempre rifiutato tale definizione, perché la sua azione è stata determinata dal fine di evitare la guerra attraverso un equilibrio di potere favorevole.

 

 

L’apertura alla Cina per indebolire Mosca, il golpe cileno per evitare che i comunisti edificassero il loro Impero in America latina: tutte mosse ambiziose ma motivate dalla necessità di mantenere gli Stati Uniti sul trono mondiale. Il suo maestro è stato Hans Morgenthau, il padre del moderno realismo politico, benché tra i due i rapporti successivamente si fossero diradati, tra alti e bassi dovuti a divergenze teoriche e accademiche rispetto alla “fedeltà” ai princìpi della cosiddetta Realpolitik. Che per Morgenthau erano chiari e netti, a cominciare dal fatto che “il concetto di interesse, definito in termini di potere, permette una comprensione razionale della politica”. In secondo luogo, “i princìpi morali non possono essere applicati astrattamente alle relazioni fra gli stati, ma devono essere filtrati dalle circostanze concrete di tempo e spazio. Un governo non può concedersi di disapprovare o evitare la violazione di qualche principio morale astratto, se una simile concessione gli impedisce di compiere una scelta politica di successo, ispirata dal supremo principio morale della sopravvivenza nazionale”. Terzo, “le aspirazioni morali di uno stato non possono essere identificate con il bene universale, ma solo con il perseguimento dell’interesse di uno stato, definito in termini di potere”. 

A differenza di Kissinger, Morgenthau non era disposto a sacrificare la teoria in nome di un “annacquamento politico” fatto di trattative e compromessi, tant’è che negli anni Sessanta criticò pubblicamente la guerra in Vietnam perché – a suo giudizio – metteva a repentaglio lo status di grande potenza americana. Quando il maestro morirà, nel 1980, Kissinger dirà che lui “considerava l’America troppo estesa, la guerra non vincibile, la posta in gioco non valeva il costo. Ho sostenuto che la dimensione del nostro impegno aveva determinato la nostra posta in gioco; che avevamo l’obbligo di cercare di uscire dalla mora attraverso la negoziazione piuttosto che l’abbandono incondizionato dell’impresa. Aveva ragione nella sua analisi, probabilmente nelle sue conclusioni politiche applicate al 1966. Tre anni dopo – inaspettatamente – mi sono trovato di fronte al problema come politico. Entrambi ci siamo attenuti alle nostre convinzioni”. 

Ha scritto Thomas Meaney sul New Yorker che “se Kissinger era un realista, lo era in questo senso: rendere prioritario l’aspetto della gestione dell’immagine in politica estera. Morgenthau, pur essendo anch’egli fissato sulla reputazione del potere di uno stato, riteneva che tale reputazione non potesse discostarsi troppo dalla capacità di uno stato di esercitare il proprio potere. Se gli Stati Uniti avessero turbato questo delicato equilibrio, come riteneva stessero facendo in Vietnam, altri stati – più realisti nella loro valutazione – ne avrebbero approfittato. Il meglio che un realista potesse fare era adattarsi alle situazioni, lavorando per un interesse nazionale strettamente definito, mentre le altre nazioni lavoravano per il loro”. Il segretario di stato di Nixon e Ford in fin dei conti alla Casa Bianca c’è stato pochissimo, altro che Bismarck o – per andare a ritroso nel tempo – Metternich. Ma nessuno, più di lui, ha avuto influenza sulla politica estera americana successiva. Anche quando era diametralmente opposta alla sua visione del mondo: c’era sempre uno spazio per una sua dichiarazione, una sua battuta, un punto di vista. Ogni volta che la Cina si preparava a uno dei suoi grandi congressi e cambi di leadership, era al vecchio Henry che si andava a bussare: diventerà la prima potenza mondiale? Attaccherà Taiwan? Xi è come Mao? Lui ribadiva che bisognava fare tutto il possibile affinché quella con la Cina non diventasse una “endless confrontation”, un confronto senza fine. Su Taiwan, con spirito puramente realista, si limitava a dire che il destino dell’isola non poteva diventare “la” questione centrale e limitante delle relazioni sino-americane. In ogni caso, ricordava ai suoi amici a Pechino che si sbagliavano di grosso se ritenevano l’America ormai fiacca e non disposta a intervenire se la Cina si fosse allargata un po’ troppo. America first, in questo senso, era un principio carissimo anche al diplomatico nato in Baviera. 

Vedeva che il mondo andava a catafascio, che la gestione bismarckiana del globo si faceva sempre più complessa, tra alleanze ballerine, fronti nuovi sempre aperti, guerre ibride e tregue fragilissime. L’autorevolezza di nume tutelare della diplomazia novecentesca lo portava sempre alla ribalta, ogni volta che non si sapeva come leggere e interpretare una svolta in quella che sbrigativamente si definisce “geopolitica” mondiale. La sua carriera al dipartimento di stato è stata segnata da successi (pochi ma decisivi) e diversi insuccessi. Blitz un po’ ovunque sul pianeta, imposizione di regimi congeniali alle logiche di Washington, ma tutti pressoché assai deboli e destinati a una fine non leggendaria. Il Nobel l’ha vinto per la fine della guerra in Vietnam, per quello stop che ebbe il coraggio di imporre a Nixon, ricordandogli quanto il conflitto aveva logorato e sfinito Lyndon Johnson. Ma il vero successo che l’ha consacrato nel pantheon dei Bismarck e dei Metternich, ma anche del cardinale Consalvi (il più grande segretario di stato nella storia della Chiesa, guarda caso pure lui realista), è stata l’apertura alla Cina. Nixon che va da Mao. Tutto preparato dalla diplomazia del ping pong e da voli aerei leggendari e avventurosi organizzati per depistare alleati e nemici. Momenti storici immortalati dal brindisi dei due presidenti, mentre alle loro spalle festeggiavano i veri artefici dell’intesa, Henry Kissinger e Zhou Enlai, lo stratega politico del Timoniere. 

Eppure, nonostante ciò, l’anima realista del diplomatico morto a cent’anni non convince tutti. Kissinger è stato influenzato, ha scritto Niall Ferguson, dai libri. Era un lettore vorace, conosceva bene e come pochi il “Faust” ed è da quelle pagine che tanto ha attinto nella sua formazione successiva e si convinse che “il realismo in politica estera, come esemplificato da Bismarck, fosse irto di pericoli. Non ultimo l’alienazione del pubblico e lo scivolamento dello statista nel considerare il potere come un fine in sé”. Forse, concludeva Ferguson, “aspirando a fini più elevati, credo che il giovane Kissinger fosse davvero un idealista”. 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.