Mohammed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti - foto Ansa

Abu Dhabi

Che ne sarà di noi se ci comprano gli Emirati? Le domande del Telegraph

Marco Bardazzi

Abu Dhabi potrebbe prendere il controllo del celebre tabloid inglese: finora l'influenza commerciale emira si era sempre concentrata sulle squadre di calcio, gli alberghi o i palazzi. Ma con la libertà di stampa in ballo la questione è molto più complessa

Ad Abu Dhabi nel fine settimana si è conclusa la stagione della Formula 1, con un gran premio che ha segnato non solo il dominio della Red Bull di Max Verstappen, ma anche il sempre maggior peso che gli emiri del Golfo hanno nello sport mondiale. Mentre il circo dell’automobilismo festeggiava, i giornalisti britannici si guardavano intorno preoccupati, osservando i grattacieli avveniristici. “Finiremo per lavorare tutti per loro?”, è l’interrogativo che serpeggiava tra gli inviati arrivati da Londra. 

  

A suscitare dubbi e un rinnovato dibattito sulla libertà di stampa è il possibile ingresso degli emiri nel mondo dell’informazione britannico, con un colpo importante. Abu Dhabi potrebbe prendere il controllo del Daily Telegraph, una delle più celebri testate del paese, che pubblica anche il Sunday Telegraph e il settimanale Spectator. Più che semplici media, si tratta di istituzioni del mondo conservatore britannico (“The Torygraph” è un soprannome del Telegraph), con un ruolo ancora importante nel guidare e influenzare la vita politica londinese. 

 

I cambi di proprietà nel mondo dell’informazione non sono certo una novità nel Regno Unito, così come non lo sono ormai da tempo in vari paesi europei e negli Stati Uniti. A rendere però diverso dal solito il possibile accordo è la società che ne è protagonista, RedBird IMI, che ha fatto la migliore offerta per rilevare il controllo del Telegraph dal Lloyds Banking Group, che lo ha messo in vendita dopo aver rimosso dalla proprietà la famiglia Barclay, sommersa da 1,15 miliardi di sterline di debiti. RedBird è una realtà americana, controllata però al 75 per cento da IMI, una società guidata da Mansour bin Zayed al Nahyan, fratello e braccio destro di Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il leader degli Emirati Arabi Uniti. In Gran Bretagna lo sceicco Mansour lo conoscono già bene, perché è il proprietario del Manchester City e di tutto il gigantesco ecosistema calcistico che è nato intorno alla società. 

 

RedBird ha fatto le cose con cura e si è presentata sulla scena londinese con un team di tutto rispetto, per rassicurare i potenziali venditori. Se dietro le quinte i soldi sono dell’imprenditore e vicepresidente degli Emirati, il volto pubblico dell’operazione è quello di Jeff Zucker, l’ex numero uno della Nbc e della Cnn che ora guida Red Bird. A rendere più solido e british l’approccio della società controllata da Abu Dhabi è poi Simon Fraser, che ne è uno dei principali consulenti ed è stato alla guida del Foreign Office per cinque anni all’epoca del governo di David Cameron. 

 

Zucker e Fraser non sono però bastati fino a ora a placare le preoccupazioni del mondo politico e giornalistico londinese. L’inquietudine nasce dal fatto che per la prima volta a controllare una delle maggiori testate britanniche ci sarebbe, in qualche modo, un governo straniero. È qualcosa di inedito anche per un paese che in passato ha visto alcuni dei propri giornali più importanti, come il Times, News of the World o il Sun, finire nelle mani di Rupert Murdoch, l’imprenditore arrivato dalle ex colonie australiane per conquistare Londra, dove per lungo tempo è riuscito con le sue testate a fare e disfare governi. Murdoch però è un imprenditore, un privato cittadino che il governo britannico può sottoporre alle proprie leggi e al proprio controllo. Che succede adesso se il peso e l’influenza che i giornali ancora possiedono passano nelle mani di un’entità governativa straniera? Se lo sono chiesto gli stessi giornalisti del Telegraph, che nel fine settimana hanno pubblicato un editoriale dal titolo esplicito: “Interrogativi chiave sulla libertà di espressione”. 

 

La libertà di stampa, afferma l’editoriale, è una caratteristica irrinunciabile per le società libere. I giornali britannici si sono resi indipendenti dal controllo della Corona dal 1695 e indipendenti dai vincoli che imponeva il governo dal 1870. È una libertà, secondo il Telegraph, che nella nostra società capitalistica è stata ritenuta compatibile anche con la proprietà dei media da parte dei più svariati imprenditori. “Questo giornale – si legge nell’editoriale – una volta era di proprietà di un cittadino canadese e gli investimenti internazionali sono una cosa comune nel mondo dei media. Ma non c’è mai stato finora il caso di una testata di primo piano in un paese occidentale controllata da uno stato straniero, tanto meno da uno stato che, pur essendo un importante alleato militare e commerciale, non è una democrazia e non difende la libertà di espressione”. È vero che la proprietà del giornale diverrebbe la stessa del Manchester City, “ma c’è poca equivalenza tra la proprietà di una squadra di calcio, che non influenza e condiziona il dibattito politico, e quella di un giornale di livello nazionale”.

 

Tutti argomenti destinati a infiammare un dibattito che adesso potrebbe spingere il governo di Rishi Sunak a intervenire. L’ipotesi più probabile è che scenda in campo Ofcom, l’autorità di controllo sui media, per un’indagine che farebbe slittare la vendita probabilmente di molti mesi. Una prospettiva che fa infuriare Zucker, che ha spiegato al Financial Times come nel progetto siano previste tutte le garanzie di indipendenza che chiedono i giornalisti, soprattutto per la creazione di un advisory board che funzionerebbe da supervisore e garante sulla libertà di stampa. “Ho trascorso trentacinque anni della mia vita a dirigere o supervisionare organizzazioni giornalistiche – ha detto Zucker – e non c’è niente che conosco meglio dell’indipendenza editoriale”. 

   

La proposta di acquisto del Telegraph fa venire alla luce un complesso intreccio di fattori economici e geopolitici. Il primo ministro Sunak, come molti altri leader occidentali, non può fare a meno del sostegno e della piena sintonia con gli emirati, specialmente per il ruolo che hanno in questo periodo nell’aiutare a gestire la crisi in medio oriente scatenata da Hamas. Ma non solo. A Dubai giovedì parte la Cop28 sul clima e i paesi del Golfo guidano la discussione. A presiedere la conferenza sarà Sultan al Jaber, che è anche ceo di Adnoc – la società oil & gas degli Emirati – e ministro dell’Industria, ciò il punto di riferimento governativo per le attività di IMI. Ostacolare o inimicarsi gli Emirati non è una buona idea per il governo britannico e infatti giusto ieri Sunak ha ospitato a Hampton Court Palace un summit di investitori promosso da Abu Dhabi.

  

Bloccare l’acquisto del Telegraph costituirebbe un precedente importante e delicato per il governo e spingerebbe ad accendere i riflettori sulla miriade di investimenti che i paesi del Golfo fanno nel Regno Unito. Finora si era sempre trattato di squadre di calcio, alberghi, palazzi, grandi magazzini. Ora che la battaglia si sposta sul terreno dei giornali e quindi della libertà di stampa, tutto diventa più complesso. Il caso Telegraph potrebbe tra l’altro essere un primo assaggio di una nuova stagione nel mondo dei media, con i fondi del Golfo come protagonisti. E per questo merita di essere monitorato con attenzione anche dagli altri grandi gruppi editoriali europei.