Quando uccidere non basta

Ostaggi e prigionieri: sono le armi sporche di ogni guerra

Siegmund Ginzberg

Di Giulio Cesare si disse che aveva più ostaggi che soldati. Merce di scambio dai greci a Machiavelli, dal Terzo Reich a Hamas. Ma a Gaza nessuno parla di prigionieri: perché non se ne fanno

Nell’aprile 1945, con il regime nazista agli sgoccioli, Berlino accerchiata e in rovine, i nazisti avevano scelto nei campi di concentramento 139 prigionieri da scambiare con salvacondotti per i capi del regime. Non chiedevano più un impossibile cessate il fuoco. La sconfitta del Reich era ineluttabile. Volevano a quel punto solo salvarsi la pelle. Non gli importava più nulla della sorte di quel che restava della Wehrmacht, né del popolo tedesco. “Un popolo che non vuole combattere eroicamente per la propria sopravvivenza merita di perire” continuava a delirare Hitler negli ultimi giorni nel bunker catacomba sotto la Cancelleria. Anche i tedeschi erano tutti suoi ostaggi. Men che meno gli importava degli ultimi sopravvissuti nei campi di sterminio. Quelli non valevano più nulla, nemmeno come merce di scambio. Sino all’ultimo cercarono di eliminarli, far sparire le prove.

Avevano prelevato da Sachsenhausen, da Dachau, da Buchenwald e da altri campi dove erano detenuti i prigionieri Prominenten, 139 ostaggi scelti, e li avevano spediti con autobus verso la mitica Alpenfestung, baluardo inespugnabile nelle montagne tirolesi. Avevano intavolato trattative segrete con gli alleati che combattevano con i tedeschi in ritirata in Valsugana. Tra gli ostaggi eccellenti c’erano uomini di stato presi a suo tempo – anzi volenterosamente consegnatigli dal governo di Vichy – nella Francia occupata, come l’ex primo ministro del Fronte popolare Leon Blum, socialista ed ebreo. C’era il teologo protestante tedesco Martin Niemöller, quello a cui nel Dopoguerra sarebbe stata attribuita la toccante confessione: “Prima vennero per i socialisti, e io non dissi niente, perché non ero socialista. Poi vennero per i sindacalisti, e io non dissi niente, perché non ero un sindacalista. Poi vennero per gli ebrei, e io non dissi niente, perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me, e non c’era più nessuno a protestare per me”. C’erano generali, ufficiali americani e russi, agenti catturati dell’intelligence britannica, familiari degli implicati nell’attentato a Hitler del 1944, altri dissidenti antinazisti, celebrità e Vip. Le SS avevano ordine di giustiziarli se le trattative non fossero andate in porto. Diversi Prominenten che avevano preso le distanze da Hitler o erano sospettati di aver preso parte all’attentato contro di lui furono sballottati da un campo all’altro, poi fucilati o impiccati. Altri sarebbero stati poi processati a Norimberga come criminali di guerra per la passata collaborazione col regime. I prigionieri russi eminenti furono fucilati dopo essere stati consegnati a Stalin. Tra questi, Vassilij Kokorin era stato trattato dai suoi carcerieri nazisti con particolare riguardo, perché fingeva di essere nipote di Molotov. A Sachsenhausen era nella stessa camerata del figlio di Stalin, Yakov. Finito in mano alleata e rispedito in Russia, fu accusato di averlo tradito e giustiziato. Un agente britannico paracadutato dietro le linee tedesche se la cavò perché era riuscito a far credere di essere nipote di Churchill. A raccontarne le storie sono Ian Sayer e Jeremy Dronfield in Hitler’s Last Plot: The 139 VIP Hostages Selected for Death in the Final Days of World War I (Da Capo Press 2019). 

Gli ostaggi di Hamas e del Jihad islamico a Gaza, secondo le stime, sarebbero 242. Non sono Vip. Tra di loro ci sono una ventina di lavoratori thailandesi. Una cinquantina tra non israeliani e persone con doppia cittadinanza. Parecchie donne e persino bambini. Alcuni anziani. Un numero imprecisato di soldati e soldatesse. “Abbiamo catturato abbastanza soldati da liberare tutti i detenuti nelle carceri israeliane [che sarebbero 5-6.000]”, aveva detto ad un certo punto un comandante di Hamas. Gli israeliani hanno chiesto un elenco coi nomi. Non l’hanno ancora avuto. Non si sa quanti e se siano periti nei tunnel bombardati. Ne hanno sinora liberato una mezza dozzina, quasi tutti anziani. Ogni tanto si preannuncia la liberazione di altri. Che poi non avviene.

Nemmeno a spizzichi e bocconi. È evidente che si tratta, in Qatar e in Egitto, anche se Netanyahu smentisce. Non viene più nemmeno chiesta in cambio la liberazione di tutti i detenuti palestinesi. Anche quelli di Hamas si devono essere resi conto che non sarebbe realistico. Viene ora chiesto, per cominciare a liberarli, un cessate il fuoco. Persino i parenti degli ostaggi, che assediano (anche fisicamente, sotto casa) Netanyahu chiedendogli di privilegiare la liberazione degli ostaggi rispetto alla “punizione” di Hamas, sono fermi su un punto: prima la liberazione, poi il cessate il fuoco. Tra le ragioni per cui Israele continua a negare il cessate il fuoco c’è anche il sospetto che sia un espediente per consentire a Hamas di riorganizzarsi, o per lo meno di consentire ai capi di dileguarsi, una specie di salvacondotto insomma. 

Facciamo un salto indietro, a un quarto di secolo fa. Gli ultimi 52 ostaggi tra quelli catturati al momento dell’assalto all’Ambasciata americana a Teheran nel novembre 1979 erano stati liberati il 20 gennaio del 1981. Erano passati quasi 15 mesi dalla cattura. Il ritardo fu determinante nell’impedire la rielezione di Carter. Pur di non consegnarli a lui, gli ayatollah avevano atteso il giorno dell’insediamento del repubblicano Ronald Reagan. Ero a Teheran il giorno in cui fu dato l’assalto all’Ambasciata. Quelli che parlavano con noi giornalisti stranieri erano tutti giovanissimi, quasi ragazzini. Studenti, di buona famiglia. Non riesco a immaginarmeli a tagliare gole. Molti di loro avrebbero poi rotto col regime. Tra gli ostaggi c’era l’addetto stampa dell’Ambasciata, Barry Rosen. Era stato il primo a dirmi, nel novembre 1978, che lo Scià, contrariamente a quel che si credeva in quel momento, vacillava. “Fifty-fifty” che restasse al potere, mi aveva detto. Io ero inviato dell’Unità, in un’epoca in cui ai comunisti veniva negato il visto di ingresso negli Stati uniti. Mi aveva accolto in Ambasciata dicendomi: “Anche lei dunque è del popolo della Terra, anche lei è ebreo come me”. Eravamo diventati amici. Decenni dopo incontrò alcuni dei suoi carcerieri. Lui è ancora impegnatissimo per la liberazione dei prigionieri in Iran e degli ostaggi. Tutti gli ostaggi.

Ostaggi se ne prendono da che mondo è mondo. Ma con finalità diverse. Nell’antichità erano soprattutto una garanzia di pace. Appena un gradino sotto i matrimoni di convenienza con cui si sancivano le alleanze dinastiche. Uno storico ottocentesco, Max Eichheim, scrisse che Giulio Cesare in Gallia doveva avere più ostaggi che soldati. Le tribù della Gallia erano solite scambiarsi ostaggi tra di loro come garanzia di amicizia. I romani si allarmarono molto quando appresero di scambi avvenuti a loro insaputa. Conclusero che le tribù si stavano coalizzando contro gli occupanti. Si fecero dare dalle tribù più amiche gli ostaggi che avevano ricevuto dalle tribù più pericolose. E li concentrarono in un’unica fortezza ben guardata. Tra parentesi, un tempo anche Cesare, appena venticinquenne, era finito ostaggio dei pirati in Cilicia. Avevano chiesto 20 talenti per liberarlo. Lui gli disse che non si rendevano conto di chi avessero catturato, e propose che ne chiedessero almeno 50. Il riscatto fu pagato. Lui in seguito reclutò tra gli alleati una flotta a Mileto, e li fece crocifiggere tutti.

Homeroi per gli antichi greci, obsides per i romani. Ci sono discussioni infinite fra i filologi sull’etimologia. Omero pare fosse un ostaggio. Altri sono colpiti dall’assonanza tra obsides e hospites. Nell’Iliade il greco Diomede e il troiano Glauco si stanno ammazzando in duello, quando Diomede riconosce nell’avversario il discendente di un ospite dei propri antenati. Smettono di combattersi. Si scambiano le armi, Glauco regala a Diomede le sue, che sono d’oro, ricevendo in cambio quelle di Diomede che sono invece di più vile bronzo. Achille invece viene esecrato dai lettori per il modo in cui fa scempio del cadavere di Ettore. Ma anche per aver sgozzato una dozzina di prigionieri troiani sulla pira dell’amico Patroclo. 

L’ostaggio antico è innanzitutto un ospite. Vengono scambiati alla pari, in segno di pace, di alleanza, di reciprocità. Non sono aggrediti, minacciati. Non sono strumenti di ricatto, ma di amicizia. Gli ostaggi vengono dati volontariamente, non presi. Vengono trattati all’altezza del loro lignaggio. Semmai diventano sospetti in patria. Filippo IV di Macedonia viene convinto dai suoi consiglieri a inviare sicari ad uccidere suo figlio Demetrio, ostaggio a Roma. Il sospetto è che se la stia intendendo con il console romano Flaminio, per sostituirsi a suo padre sul trono. Nell’Ara Pacis figurano, accanto ai bambini della famiglia di Augusto, altri piccoli vestiti principescamente all’orientale, probabilmente ostaggi. Polibio fa dire a Scipione, gran massacratore di cartaginesi inermi (e anche di ostaggi in mano romana), che quelli sono barbari, perché non rispettano gli ostaggi che avevano preso in consegna dagli iberici, li brutalizzano, mentre lui li tratta “come figli”. Tutto quello che volete sapere sugli ostaggi antichi, e anche di più, in Joel Allen, Hostages and Hostage-Taking in the Roman Empire (Cambridge 2010)

Però non tutti gli ostaggi sono pari. All’inizio dei Captivi di Plauto, andato in scena a ridosso della Seconda guerra punica, si presentano due giovani. Sono stati entrambi fatti prigionieri nel saccheggio della loro città. Prima, uno era il padrone, l’altro un suo schiavo. Si scambiano le rispettive identità. Lo schiavo si sacrifica per il padrone, rischia la propria vita per salvarlo. C’è un happy ending all’americana. Il padrone la fa franca. Lo schiavo viene rivenduto come schiavo. Solo alla fine si scoprirà che chi l’ha comprato è il padre a cui era stato rapito da bambino. L’audience ride. Sa benissimo che i ricchi e potenti solitamente se la cavano. Anche se talvolta rischiano di essere giustiziati anche loro (è la ragione dello scambio di identità nella commedia). 

Nella colonna traiana è raffigurata la decapitazione di ostaggi (o prigionieri di guerra) daci. Più spesso però gli ostaggi sono strumento di ricatto. Anche nei confronti della fazione avversa del proprio popolo. Ad esempio, durante la prima secessione della plebe romana nel 494 a.C, il patrizio Appio Claudio ha una proposta che non si può rifiutare: “Abbiamo ostaggi i loro padri e mogli e il resto delle famiglie. Non potevamo sceglierne di migliori. Mettiamoglieli bene in vista, minacciando che, se osano attaccare, li uccideremo nella maniera più crudele. Se capiscono bene c’è da aspettarsi che si arrendano e si sottomettano” (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, 6,62.5). I plebei furono obbligati a sottomettersi. Gli autori classici vedono l’episodio come una garanzia di pace. Ostaggi e prigionieri vengono uccisi o lasciati in vita a discrezione dei comandanti (salvo indicazione contraria del Senato, ma capita che qualche comandante li faccia giustiziare prima di aspettare le decisione). Possono essere riscattati, lasciati andare senza contropartita, spediti a Roma per essere esibiti in trionfo, messi a lavorare per l’esercito, o affidati agli alleati, o riscattati. Livio spiega che sia nella Prima che nella Seconda guerra punica “tra il comandante romano e quello cartaginese si era convenuto che quella delle due parti la quale ricevesse più prigionieri che non ne dava, pagasse due libbre e mezzo d’argento per testa” (Storie Libro XXII, 32).  Gli schiavi, i non combattenti, i poveracci, quelli che non son nessuno, vengono uccisi, seviziati o, se gli va bene, restano schiavi. Cambiano solo di proprietà. Di loro gli storici antichi si curano poco

C’è tutta un’economia degli ostaggi e dei prigionieri. Garanzia, ma anche moneta di scambio. Come fossero contante. Gli antichi romani li chiamavano anche pignora, da cui derivano i pignoramenti. Per secoli nel Mediterraneo i corsari musulmani davano la caccia a ostaggi cristiani, e i pirati cristiani si impadronivano di ostaggi musulmani, o anche cristiani. L’industria dei captivi, con precisi tariffari e regole, prosperò fino all’Ottocento. Durante il sacco di Roma del 1527 ad opera dei lanzichenecchi di Carlo V la cattura e rivendita di prigionieri creò fortune immense. Durò ininterrottamente per 12 giorni. Nell’euforia del saccheggio i soldati luterani imperiali non guardarono in faccia nessuno: vennero fatti prigionieri donne, bambini, preti, monache, ambasciatori di paesi terzi.  “Un grandissimo numero di prigioni [prigionieri] di ogni qualità” finirono in mano agli imperiali, racconta Luigi Guicciardini. Chi non poteva pagare un riscatto, o si rifiutava di farlo, veniva immediatamente ucciso.  

Nelle guerre d’Italia del 1500, secondo Machiavelli, “il disarmato ricco è premio del soldato povero” (Arte della guerra). Sono merce di scambio. “De’ vinti, pochi se ne ammazza; niuno se ne tiene lungamente prigione, perché con facilità si liberano”. Si contrappone la bona guerra alla mala guerra, la guerra senza quartiere “non more italico humaniter, sed barbara crudelitate cruente” (Giovio, Historiarum su temporis). L’Ambasciatore veneziano si duole del come l’assedio degli imperiali a Firenze del 1529 si sia trasformato in una “guerra a morte”, in cui non si fanno prigionieri. “E quanti si prendono de’ lanzi e spagnuoli, tutti si ammazzano, perché il simile fanno quelli di questi”. I fiorentini negano: “Noi non habbiamo usato verso loro alcuna crudeltà, né habbiamo in animo di usarla mai […] ma li habbiamo messi in una carcere, che non vi è altra incomodità che il non poter andare fuori a loro piacere”. 

C’è chi addirittura si oppone a che la bona guerra, uno scambio di prigionieri, sia esteso ai civili. “Non mi pare conveniente in tal mutua e reciproca conventione [includere anche i civili] perché in loro cessano li respecti li quali fanno honesta e ragionevole ogni cortesia che i soldati si possa usar et non bisogna dire che sia crudeltà non trattar li cittadini come soldati perché […] quanto più hanno provocato la indignatione del Exercito essi cittadini che li altri soldati”. Questi gli argomenti con cui il l’Avalos, il comandante delle truppe imperiali, nega uno scambio di civili fiorentini in cambio di soldati spagnoli prigionieri. Tale e quale l’argomento di Kesselring, che rifiutava di equiparare i partigiani, e i civili accusati di sostenerli, ai combattenti. Ordinò: “Uccidere 10 italiani per ogni tedesco. Eseguire immediatamente”.

C’è una cosa che colpisce nella guerra di Gaza. Che non si ha notizia di prigionieri. Né da una parte né dall’altra. Si parla degli ostaggi israeliani. Talvolta della popolazione civile tenuta ostaggio da Hamas. Mai di prigionieri di guerra. Perché quel tipo di guerra non permette la cattura di prigionieri, si spara a qualunque cosa si muova prima che quella spari a te? Perché non saprebbero cosa farne né dove metterli? O perché la consegna è “Niente prigionieri”? Nel senso di ammazziamoli tutti, come intende Lawrence d’Arabia, impersonato da Peter O’Toole nel celebre film, quando ordina l’attacco a una colonna turca in ritirata?

Quello di Gaza è un assedio che in qualche modo evoca assedi e distruzioni di millenni fa, sempre da quelle parti. Le iscrizioni degli antichi re assiri, la Bibbia, i resoconti degli storici ellenistici e di quelli romani sono zeppi, sin all’eccesso, di violenze orripilanti, di città assediate e rase al suolo, di cittadini inermi massacrati senza pietà. Forse esagerano a fini di propaganda. Propaganda della ferocia, la propria. Per quanto possa sembrare paradossale, sono i perpetratori dei massacri a vantarsene, più che le vittime a lamentarsene. Assurbanipal e Tiglatpileser gli orrori da loro comandati li incidevano nella pietra, come per dire: vedete quanto possiamo essere cattivi e spietati. Oggigiorno li posterebbero sui social. 

Altro paradosso è che i capi nemici riescono spesso a scappare, e, se catturati, talvolta se la cavano. I non combattenti hanno meno fortuna. Eppure uccidere i civili richiede tempo e fatica. Non incoraggia la resa dei nemici. Distoglie dalle operazioni militari. Diventa pericolosissimo per gli assalitori se c’è il rischio che sopravvenga un nuovo esercito nemico a dar man forte agli assediati. Comunque, una volta vinta una città, conviene molto di più vendere i vinti, piuttosto che massacrarli. Quando era governatore della Cilicia, Cicerone compie spedizioni contro città di frontiera più per guadagno che per ragioni strategiche. In una lettera all’amico Attico esprime grande soddisfazione per non aver perso uomini nell’assedio di Pindenisso, e soprattutto per i risultati in soldoni: “Sto passando allegri Saturnalia [dal 17 al 23 dicembre, per gli antichi romani era come il nostro Natale], e così i miei soldati, ai quali ho dato tutte le spoglie, tranne i prigionieri. I prigionieri sono stati venduti nel giorno stesso in cui scrivo questa lettera, realizzando 120.000 sesterzi”. 

Urbs capta (città presa), o ancora più di frequente Urbs direpta (da diruere, distruggere, fare a pezzi, saccheggiare, anche massacrare) sono espressioni ricorrenti negli storici classici. Non importa se si tratta di città vicine a Roma, abitate da alleati o addirittura concittadini, come Cremona o Capua (colpevole di essere passata dalla parte di Annibale), o di capitali dell’impero nemico, come Cartagine. I cittadini di Locri, che ha cacciato i Cartaginesi, si rivolgono al Senato di Roma dicendogli che la guarnigione romana si comporta molto peggio dei Cartaginesi: “Tutti rapinano, spogliano, percuotono, feriscono, uccidono; violentano matrone, vergini, fanciulli liberi strappati dalle braccia dei genitori; ogni giorno è conquistata [capitur], ogni giorno è messa a sacco [dirupitur] la città nostra […] Stupirebbe chi sapesse come noi resistiamo nel sopportare, o come ancora non siano sazi di tante violenze quelli che le commettono […] Non c’è a Locri una casa, una persona che non sia stata colpita. […] Difficile è stabilire quale delle due sorti sia più detestabile per una città, se essere espugnata in guerra da un nemico, o oppressa [da sedicenti amici] con le armi e la violenza” (Livio, Storia, XXIX, 17). 

È questo “l’uso dei romani”, spiega Polibio, che era stato ostaggio prima di diventare amico di Scipione, che volle con sé nelle sue spedizioni. “Credo che i romani agiscano così per generare terrore”, scrive Polibio nel raccontare la presa di Cartagena, “perciò spesso è possibile vedere, quando essi prendono le città, non solo uomini uccisi, ma anche cani tagliati in due e membra sparse di altri animali” (Polibio, Storie, X, 15). E meno male che Scipione aveva dato ordine, dando il buon esempio allorché i soldati gli avevano offerto una fanciulla bellissima, di non violentare le donne (probabilmente per non distrarre anzitempo i soldati dal combattimento) e di non recar danno agli ostaggi iberici in mano ai cartaginesi. Censì i prigionieri uno per uno, lasciò andare gli iberici amici, e vendette come schiavi tutti gli altri. 

Più duro ancora sulle “abitudini” dei romani è l’ebreo Giuseppe (poi detto Flavio) che era stato anche lui ostaggio dei romani, ma poi era diventato amico e collaboratore di Vespasiano e di Tito. Racconta, oltre all’orrendo assedio di Gerusalemme, la presa di Masada. I Sicarii (come quella fazione di ribelli ebrei veniva chiamata dai Romani) avevano preferito suicidarsi piuttosto che cadere in mano ai nemici. Avevano ucciso, nel labirinto di cunicoli sotto la fortezza, le donne e i bambini. Poi si erano dati la morte l’un l’altro. 

Tra le misure per costringere alla resa le città, spesso c’è il tagliargli l’acqua, oltre che affamarle. Frequente l’abitudine di demolirle, non solo le mura, ma casa per casa. I Romani non risparmiavano neppure i templi, dove, come da tradizione, si rifugiava la popolazione civile per sfuggire al massacro o alla riduzione in schiavitù. I luoghi di culto venivano considerati inviolabili, per non contrariare le divinità che proteggevano i profughi. Avevano insomma in qualche modo la funzione che hanno gli ospedali a Gaza. Ma talvolta i santuari venivano risparmiati se l’assalitore era superstizioso. I comandanti romani conoscevano a memoria l’Iliade, dove ai greci mal gliene incoglie per aver violato il santuario di Apollo e rapito le figlie del sacerdote. Il dio li colpisce con la peste e quasi gli fa perdere la guerra. 

Ritrovate tutto quello che avreste voluto sapere sugli orrori della distruzione delle città antiche, nel classico saggio di Adam Ziolkowski, Urbs direpta,  e altri studi più recenti: Ancient Siege Warfare di Paul Bentley Kern (Souvenir Press 1999) e Spare no one di Gabriel Baker (Rowman & Littlefield  2021). Les Massacres De La République Romaine, della storica dell’Università di Nantes, Nathalie Barrandon (Fayard 2018), affronta il tema in modo ancora più originale, argomentando che le infinite descrizioni degli orrori della presa delle città sarebbero fiction letterarie, che si rincorrono. Sarebbero insomma sensazionalismo, non testimonianze dirette o attendibili. Se può consolarci. 

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