Joe Biden (Ansa)

Negli Stati Uniti

Israele, Ucraina e inflazione: le tre guerre di Biden

Marco Bardazzi

Il sostegno a Gerusalemme e Kyiv e po l'economia domestica. Il presidente americano deve ricostruire il consenso dentro al suo partito e poi convincere il resto dell’America. L’energia da trovare e qualche dato

Tra un anno si vota e Joe Biden è alle prese con tre guerre. Il presidente degli Stati Uniti non sa ancora chi sarà il suo avversario repubblicano nella corsa alla Casa Bianca, anche se tutto sembra indicare un rematch contro Donald Trump. Ma sa benissimo chi sono, Trump a parte, i tre nemici con cui dovrà fare i conti nell’anno elettorale: Vladimir Putin, Hamas e l’inflazione. 

Sembrano tre guerre profondamente diverse tra loro, l’Ucraina, Gaza e l’economia domestica, ma nell’immaginario di una larga fetta dell’elettorato americano si sta verificando un fenomeno già visto in altri momenti della storia americana. Un rimescolamento – alimentato dalle spinte populiste di questi anni – che porta a ragionamenti sintetizzabili nelle chiacchiere da diner, l’equivalente delle nostre elucubrazioni da bar, del tipo: “Ma perché dobbiamo spendere tutti questi soldi per gli ucraini o gli israeliani, quando io non posso più permettermi la rata del mutuo della casa o la spesa nel solito supermercato?”.

Nell’anno che manca al voto del 5 novembre 2024, Biden si trova di fronte alla sfida di convincere il paese, o almeno una maggioranza degli americani che andranno ai seggi, della necessità, giustezza e importanza di quello che la sua Amministrazione sta facendo in Ucraina e in medio oriente. Sperando allo stesso tempo che si comincino a vedere gli effetti della Bidenomics, che sta dando risultati importanti, ma ancora difficili da percepire per l’americano medio, a causa soprattutto del persistere dell’inflazione. Lo testimoniano i sondaggi sul basso gradimento per il presidente. L’ultima rilevazione del New York Times con il Siena College, lo scorso fine settimana, ha provocato brividi di terrore ai democratici. Solo un anno fa, quando gli americani si sono pronunciati nelle elezioni di metà mandato, Biden sembrava in rimonta e Trump finito. Adesso l’ex presidente viene dato dai sondaggi vincente in cinque stati chiave (Nevada, Georgia, Arizona, Michigan e Pennsylvania) che erano stati decisivi nel 2020 nel far vincere Biden. Più in generale, una larga fetta della popolazione oggi ritiene che si stesse meglio con Trump, sia in politica estera sia sul fronte domestico. 

 

Il cammino dei prossimi dodici mesi è pieno di trappole per il presidente, a partire dalle incognite su quello che può accadere nelle due guerre in corso e su altri fronti che si potrebbero aprire (la Cina e Taiwan sono sempre al centro dell’attenzione di Washington). Ma anche per le defezioni interne ai democratici su una delle tre guerre di Biden. 

Se infatti sul sostegno all’Ucraina il partito del presidente è tutto sommato compatto e sull’economia c’è una normale dialettica interna con l’ala sinistra dei democratici, che vorrebbe interventi di welfare più coraggiosi, è su Israele che stanno emergendo crepe pericolose per Biden. Il sismografo che la Casa Bianca tiene sotto costante osservazione in questo caso sono le primarie dei candidati democratici per la Camera. Il 5 novembre del prossimo anno, infatti, oltre che per il presidente si voterà per tutti i 435 seggi della Camera e per un terzo di quelli del Senato. In queste settimane sono partite le campagne elettorali per le primarie che dovranno scegliere i candidati in ciascun distretto e gli effetti della guerra in corso a Gaza si sono fatti subito sentire. 

Alcuni deputati democratici noti per i loro legami con la comunità ebraica e con le organizzazioni pro Israele, si sono trovati sfidati nelle primarie da colleghi di partito filopalestinesi e cominciano a venir contestati negli eventi pubblici. Il clima che si registra in molti campus universitari spinge l’ala sinistra a farsi portavoce del malcontento. E al Congresso si fanno sentire le voci del gruppetto ribattezzato The Squad, una task force di una quindicina di progressisti con ampia visibilità mediatica che accusano la Casa Bianca di sbagliare a schierarsi troppo nettamente con Israele. E’ il gruppo che ha votato contro o si è astenuto su una risoluzione di condanna di Hamas e di sostegno pieno a Israele e ne fanno parte personaggi con un grande seguito, come la deputata newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, la sua collega del Michigan Rashida Tlaib, la prima americana di origini palestinesi a essere entrata al Congresso, o la deputata Cori Bush del Missouri, una leader del movimento Black Lives Matter. 

 

E’ una battaglia interna ai democratici che indebolisce ulteriormente Biden, rendendo più difficile creare una risposta compatta alla sfida che arriverà dalla sempre più probabile scelta di Trump come candidato ufficiale dei repubblicani. Già prima della nuova crisi in medio oriente, una larga fetta del partito del presidente e dei suoi elettori era tiepida (se non decisamente fredda) di fronte alla sua scelta di correre di nuovo per la presidenza da ottantenne – compirà 81 anni il 20 novembre prossimo – e in una forma fisica che lo vede perdere progressivamente energie. Nessuno tra gli esponenti che contano sfiderà Biden per la Casa Bianca, come fece Ted Kennedy nel 1980 contro l’allora presidente Jimmy Carter. Ma cresce il timore tra i democratici che il loro candidato arrivi al confronto-bis con Trump troppo indebolito. Anche per colpa di ferite che molti ritengono siano autoinflitte da parte di Biden. Una è quella delle vicende giudiziarie del figlio Hunter, dalle cui disavventure imprenditoriali il presidente non ha mai preso sufficientemente le distanze e che ora minaccia di diventare una grande distrazione nel 2024. 

 

Ma ci sono anche scelte politiche che rischiano di costare caro a Biden e che i suoi sono pronti a rinfacciargli. Come quella di saltare i tradizionali primi appuntamenti con le primarie in Iowa e New Hampshire (due stati dove ha sempre avuto risultati scarsi) per far partire la serie di voti in South Carolina, il luogo che nel 2020 rilanciò la sua candidatura e lo proiettò verso la Casa Bianca. L’Iowa ha preso lo sgarbo tutto sommato bene e si è concentrato sull’organizzazione dei caucus che il 15 gennaio daranno l’avvio alla corsa alla nomination repubblicana. Il New Hampshire invece è furibondo e i democratici locali minacciano di eleggere un candidato sconosciuto, solo per la soddisfazione di vendicarsi di Biden. Il presidente può decidere di lasciare che i sostenitori mettano il suo nome sulla scheda anche se lui non farà campagna nello stato, ma rischia anche in questo caso una figuraccia, nel caso prendesse pochi voti. C’è un precedente lontano ma che preoccupa la Casa Bianca: il presidente Lyndon B. Johnson fece una mossa simile in New Hampshire nel 1968, andò male in termini di voti e fu l’evento che gli fece decidere di ritirare la candidatura e rinunciare a un nuovo mandato. 

 

Di fronte a  questo scenario, alle due guerre che sta affrontando all’estero, a quella che combatte in casa contro l’inflazione e alle schermaglie interne al suo partito, Joe Biden ha in realtà a disposizione la possibilità di usare un’arma potente e decisiva: i risultati del lavoro che ha fatto fino a ora. I numeri che deve “vendere” all’opinione pubblica sono quelli che tiene aggiornato l’Annenberg Public Policy Center, un autorevole centro studi bipartisan dell’Università della Pennsylvania. Da quando è cominciata la sua presidenza, Biden ha creato 13,9 milioni di posti di lavoro, portando il totale a 4,5 milioni in più di prima della pandemia. Il tasso di disoccupazione è al 3,9 per cento, il più basso da 54 anni. Smentendo le previsioni degli economisti che ipotizzavano una recessione, l’economia americana è cresciuta quest’anno con un tasso annuo del 2,2 per cento nel primo trimestre e del 2,1 nel secondo. I profitti della Corporate America sono cresciuti del 22,6 per cento. Il numero di persone senza una copertura sanitaria è calato dell’1,3 per cento. 

I giganteschi investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture, dei chip e dell’energia rinnovabile stanno cominciando a far vedere i loro effetti. Il problema della Casa Bianca è che gli americani ancora non si sono accorti degli effetti della Bidenomics e sono sempre gli analisti dell’Annenberg a spiegare il perché. L’inflazione è ancora pesantissima e dall’inizio della presidenza ha raggiunto i livelli più alti da 40 anni a questa parte. I prezzi al consumo sono saliti del 17 per cento, il prezzo della benzina alla pompa del 50 per cento, i costi delle case del 29,6 per cento. Gli stipendi degli americani non riescono a tenere il passo e una volta aggiustati tenendo conto dell’inflazione, dal 2021 a oggi sono calati del 3,9 per cento. 

Per convincere gli elettori che la strada è giusta e che le cose miglioreranno nel tempo, serve un presidente forte, comunicativo, carismatico, che vada in giro per tutti gli stati nel 2024 e faccia una campagna elettorale vigorosa, rispondendo agli attacchi che arriveranno da Trump e dai repubblicani. E qui torna il problema di Biden: a 81 anni e con poca energia, sarà in grado di farlo? Potrà contare su un forte aiuto da Barack Obama, come già è successo prima delle elezioni di midterm del 2022, ma l’ex presidente è utile e importante per compattare la base democratica, non necessariamente per convincere gli indecisi. 

Anche nei confronti di chi solleva dubbi, nelle chiacchiere nei diner, sull’opportunità di dare altri miliardi a Ucraina e Israele, Biden può usare argomenti forti, se troverà l’energia per farlo. Sì, l’America può permettersi di stanziare altri 100 miliardi di dollari per Ucraina, Israele e Taiwan, senza che i suoi cittadini paghino chissà quale prezzo. Perché ha un’economia che quest’anno produrrà 27 trilioni di dollari in beni e servizi e quest’anno ha speso 850 miliardi per la difesa. Che sono pari a poco più del tre per cento del pil: la metà di quello che gli Stati Uniti spendevano durante la Guerra fredda. I 75 miliardi di aiuti che l’America ha già dato all’Ucraina non incidono più di tanto sull’economia, tanto più che un terzo di quegli armamenti erano riserve di magazzino del Pentagono che già erano considerate obsolete. Israele da tempo riceve tre miliardi di dollari all’anno di aiuti dagli Stati Uniti: aggiungerne altri 10 per l’emergenza creata da Hamas è un investimento in democrazia e sicurezza che l’America può tranquillamente permettersi. 

 

Il problema che ha Biden, in fin dei conti, è di comunicazione. Tutto sta nel capire se riuscirà a compattare il partito, mobilitare la base e far arrivare agli elettori il messaggio che la ricetta economica messa in campo è efficace e che sconfiggere Putin e Hamas è vitale per l’America e non entra in concorrenza con la guerra all’inflazione. 

Ovviamente ci sono molti altri temi che determineranno la campagna elettorale, dall’aborto ai diritti Lgbtq e alla lotta all’immigrazione clandestina (il confine con il Messico sarà al centro dell’attenzione di entrambi i partiti). Per non parlare di tutti gli interrogativi, anche di tenuta della democrazia, che solleva la prospettiva di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e delle incognite legate ai processi giudiziari in corso per l’ex presidente. Ma le guerre all’estero e la situazione economica sembrano destinati a diventare il cuore del dibattito elettorale e sarà su questi terreni che Biden dovrà trovare la giusta narrazione e la forza per comunicarla in modo efficace. 

I precedenti storici probabilmente non rassicurano i suoi strateghi. Carter si trovò alla fine del suo primo mandato con un paese altrettanto critico e in preda a quello che fu definito un forte “malessere” per la situazione economica. Poi si trovò invischiato nella crisi degli ostaggi americani in Iran e finì per perdere contro Ronald Reagan. Nel 1992 George H.W. Bush si presentò agli elettori forte della fresca vittoria contro Saddam Hussein in Iraq e con in testa l’aureola di presidente che aveva vinto la Guerra fredda e visto crollare il Muro di Berlino. Ma perse contro Bill Clinton per non aver capito che agli americani interessava di più la situazione economica debole del paese (“It’s the economy, stupid!”, è il celebre grido di battaglia elettorale che lo stratega James Carville costruì per Clinton, facendolo vincere). 

Biden però potrebbe riuscire a compiere l’impresa di un altro presidente di guerra, il secondo Bush, che nel 2004 sembrava spacciato per l’andamento tragico del secondo conflitto in Iraq e per la situazione di incertezza in cui viveva l’America post 11 settembre. Eppure riuscì a convincere gli americani a fidarsi di nuovo di lui, nonostante un avversario forte e credibile come John Kerry. 

Quello che si apre in America sarà un anno elettorale duro, pieno di incognite internazionali e totalmente inedito sul fronte interno se i repubblicani sceglieranno davvero Trump: è dai tempi di Theodore Roosevelt che non si vedeva un ex presidente di nuovo in corsa e nessuno può dire che effetto avranno i processi e il rischio concreto che il candidato finisca in manette prima del voto. I fattori in gioco per Biden sono di una complessità con pochi precedenti, ma l’attuale inquilino dello studio ovale ha un punto di forza: dà il meglio di sé quando viene sottovalutato e quando tutti pensano che non ce la farà. 

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