il reportage
Un mese di resistenza: tanti lutti ma Israele non si tira indietro
Reportage tra gli studenti che raccolgono pomodori, donne che offrono il latte ai neonati, ristoranti e hotel che accolgono soldati e rifugiati
Le serre di Amioz distano 8,5 chilometri in linea d’aria dalla barriera di separazione con Gaza. Dalle strade di raccordo tra i moshavim, sul lato orientale della strada 232, e i kibbutzim, su quello quello occidentale, si vedono le colonne di fumo nero salire dall’enclave costiera palestinese. I colpi sparati dalle unità di artiglieria di Tsahal fanno sobbalzare gli studenti di Regavim Youth, la scuola per ragazzi religiosi che abbina lo studio di tutte le materie classiche – Matematica, Storia, Inglese – con il lavoro nei campi. Dai filari sotto il tendone spunta la testa riccioluta di Yedidia, 16 anni e tanto genuino spirito sionista. “Cosa sono questi boomim?”. “Sono buoni. Sono i nostri colpi”, risponde Navo Dor, agricoltore della valle del Giordano e coordinatore dei volontari nell’organizzazione HaShomer HaChadash. “Ah. Bene!”, e torna a raccogliere i pomodori. È al lavoro dalle 5 del mattino per aiutare i contadini nel raccolto. Ogni giorno per una settimana. Di notte, è ospite del moshav Yated. Non fa paura restare a due passi dalla zona di guerra, limitata dall’esercito? “Sì, un po’. Ma credo in quello che faccio e credo che fare del bene mi protegga. I contadini hanno bisogno di braccia forti, ora che tutta la manovalanza thailandese è venuta a mancare”.
In tempi normali, l’azienda agricola di Ronni impiega 45 lavoratori thailandesi. Con l’inizio della guerra sono andati via quasi tutti, ne sono rimasti solo 4. Sono tornati a casa su pressione del re della Thailandia e dell’ambasciata, che hanno pagato per i loro biglietti aerei. Peperoni e pomodori pendono dalle piante, in attesa di essere raccolti. Se non fosse per i volontari, andrebbe tutto sprecato. Anche se il loro impatto è poco più che simbolico. Un bracciante thailandese lavora al ritmo di 2 tonnellate di prodotti al giorno. Va già bene se un volontario riesce a tirar su 500 chili.
Le catene dei supermercati, con una decisione criticata anche per le sue implicazioni politiche, stanno ovviando alla scarsità di prodotti importando i pomodori e le zucche dalla Turchia e i cetrioli dalla Giordania. L’Arava, che di solito in inverno produce peperoni per l’esportazione, quest’anno rappresenta un tesoretto locale che resterà in Israele. Ma sulle aziende agricole della cintura intorno alla Striscia, alcune centinaia, “Israele fa affidamento per il 75 per cento dei pomodori, il 20 per cento dei peperoni, il cento per cento delle patate e delle arachidi, il 50 per cento delle carote e delle patate dolci”, spiega Israel Fluxman, l’amministratore delegato di Efal Agri, un’azienda che coltiva sementi di ortaggi e sviluppa materie prime per l'agricoltura. Anche lui intraprende due o tre volte la settimana il viaggio di due ore buone da Tel Aviv per venire in soccorso dell’amico e cliente Ronni.
In tutta quest’area c’è una consuetudine con i razzi e le fughe nei rifugi. Ma questa volta è diverso. L’elenco di Fluxman rende l’idea: “Il figlio di un mio cliente e altri due amici hanno perso la vita nel massacro di Hamas del 7 ottobre, mentre tentavano di difendere il moshav. Un mio ex dipendente, di Kfar Aza, è stato ferito e portato in ospedale. Nel frattempo la moglie e i loro tre figli sono stati presi in ostaggio e ora sono a Gaza. Un lavoratore thailandese è stato colpito in pieno da un missile lanciato dalla Striscia mentre era a bordo del trattore in un campo di zucche”.
“Non so se da grande farò il contadino”, aggiunge Yedidia, “ma in questa fase della vita la mia forza fisica è all’apice. Voglio metterla a frutto per qualcosa di importante, non voglio starmene seduto solo a studiare”. Alla sera, dopo il lavoro e lo studio, l’adolescente sionista religioso incontra i gruppi di volontari laici di sinistra. Sono i Brothers and Sisters for Israel, che fino al 7 ottobre erano in prima linea nel movimento di protesta contro il governo di Netanyahu. Due mondi ai poli opposti dello spettro politico. Eppure: “Quando qualcuno in Israele ha bisogno di aiuto, tutti accorrono. Loro e noi”, spiega il sedicenne. “E’ molto emozionante vedere che possiamo lavorare e divertirci insieme. Ho sempre pensato che avremmo potuto avere un futuro in comune. Adesso ne ho la certezza”.
Brothers and Sisters for Israel è la più grande organizzazione di aiuti civili in prima linea. Le operazioni sono guidate da ex comandanti delle Forze speciali militari israeliane e da imprenditori dell’hi-tech. Hanno già aiutato 3500 persone a evacuare e hanno risolto il 65 per cento delle richieste di ospitalità, mettendo in contatto domanda e offerta. Hanno contribuito alla profilazione di centinaia di persone disperse o rapite, hanno provveduto ai mezzi di trasporto per ottomila civili e militari, hanno portato un abbraccio a oltre 220 famiglie in lutto. Hanno salvato centinaia di animali domestici nel sud di Israele e organizzato e distribuito duecentomila pasti. Tra i membri attivi dell’organizzazione c’è Ofer Sachs, ex ambasciatore di Israele in Italia: “La magnitudine e la brutalità dell’evento ha reso questa circostanza una minaccia esistenziale per Israele. Il numero di persone che sono state travolte dall’emergenza, nel sud del paese ma anche nel nord, ha creato un volume di necessità che non potrebbe essere affrontato senza l’impegno della società civile. Che ha reagito molto rapidamente per non lasciare nessuno indietro, senza distinzioni di colore politico. Pur sollevando dure critiche al modo in cui il governo sta gestendo la situazione”.
C’è un aneddoto che la scrittrice e psicologa clinica Ayelet Gundar Goshen ricorda e racconta in ogni intervista, in queste settimane: “Una donna che aveva appena partorito è stata data per dispersa dopo il massacro. La neonata era ancora in fase di allattamento così altre madri israeliane si sono fatte avanti per nutrire questa bambina, perché potesse ricevere ancora latte materno. Speravano che la madre sarebbe tornata. Invece è stata trovata morta, uccisa nel massacro della festa. Ma queste madri che hanno donato il latte del loro seno sono il simbolo di una generosità, che puoi trovare anche nei tempi più spietati”.
Fin dai primi giorni la cantante Noa ha deciso di donare la propria voce. In un appello struggente sui social, il 9 ottobre l’artista si è rivolta a tutti i suoi concittadini israeliani, “a coloro che si sentono distrutti, bisognosi, storditi, in lutto, disperati, che sanguinano, terrorizzati, pazzi di preoccupazione e di paura”. A loro ha offerto una visita per cantare, parlare, abbracciarsi. Cosa è successo, da allora? “Continuo ad andare ovunque ci sia bisogno e i concerti ovviamente sono gratuiti”, racconta Noa. “Di solito i tour si costruiscono al contrario. Si stabiliscono le tappe e il pubblico viene da noi. Ora siamo noi che andiamo dalle persone. In questo momento stiamo raggiungendo Ruchama, un kibbutz molto vicino al confine con la Striscia ma abbastanza distante da non essere stato travolto nell’attacco del 7 ottobre. I residenti stanno attraversando momenti molto difficili”. La “raison d’être” dell’artista è questa, secondo la cantante israeliana: “Esprimere e condividere le emozioni è anche una forma di terapia reciproca”.
E poi ci sono i bisogni meno spirituali e più materiali. “Per me e per i miei cuochi è stato un privilegio cucinare per i riservisti che si offrono e rischiano la vita per salvare la nostra”, dice Rima Ari Olvera, proprietaria e chef dell’elegante insegna Oasis a Tel Aviv. “Il mio cuoco di 22 anni ha perso quattro amici il giorno dell’invasione di Hamas. Ventenni che stavano celebrando la vita e la pace al festival Nova. Vado fiera della mia brigata che, da quando è iniziata la guerra e fino a venerdì scorso, ha dedicato volontariamente, pur non navigando nell’oro, energie e tempo per preparare fino a 450 pasti al giorno. Pietanze vegane”, spiega, “per soddisfare gli amici nell’esercito che mangiano in regime di veganesimo e di kasherut. Da nutrizionista, mi sono assicurata che fossero pasti estremamente nutrienti, e non solo calorici”. Sebbene tutta la materia prima provenisse da donazioni e lo staff abbia lavorato gratis, gli elevati costi di un ristorante di lusso impone a Olvera di riaprire ai clienti. “Ma i soldati continueranno a essere nostri ospiti quando verranno qui”, assicura.
Danny Tamari è il proprietario di un boutique hotel nel centro di Tel Aviv e il suo ottimismo è disarmante. “Nonostante le difficoltà, ne usciremo più forti di prima e migliori. Stiamo già mettendo i semi per il day after”. Avrebbe potuto chiudere i battenti e limitare i danni economici. Invece ha deciso di offrire ospitalità a famiglie di sfollati da tutto il paese, ma anche ai volontari che stanno arrivando per sostenere Israele da ogni parte del mondo, dal Cile, dal Texas, dalla Francia. “Restare aperti non è una scelta di business ma credo sia quella giusta. Abbiamo compilato il budget in un file excel. Poi abbiamo deciso di ignorarlo”. In tempo normali i concierge del The Vera, tra cui Olga Noshchenko, sono soliti invitare gli ospiti a praticare yoga sul tetto, a correre sul lungomare con il personal trainer o visitare le gallerie d’arte del quartiere con una guida esclusiva. Come è cambiato il mestiere? “In un certo senso, completamente. Ma l’ospitalità è sempre offrire amore e cure. Abbiamo l’opportunità di accogliere persone che arrivano con i segni di un trauma terribile e di vederle ritrovare fiducia nell’umanità e nel prossimo”, dice Noshchenko con la commozione nello sguardo.
Tra i primi ad aprire le porte alle famiglie evacuate da Ashkelon, sotto il tiro dei razzi di Hamas, è stato Maoz Inon, fondatore del tour operator e della catena di ostelli Abraham. L’imprenditore, un sostenitore di lunga data della coesistenza tra israeliani e palestinesi, ha perso il padre Yaakobi (78 anni) e la madre Bilha (76), morti carbonizzati nella loro casa a Netiv HaAsara, il moshav più vicino al valico di Erez, colpita in pieno da una granata a razzo lanciata da un terrorista di Hamas. Ci sono almeno 23 arabi vittime del massacro di Hamas e sette ostaggi. A Rahat, città beduina nel Negev, arabi ed ebrei si stanno dando da fare in un centro di soccorso per fornire assistenza medica e cibo a chi ne ha bisogno. Shir Nosatky della ong Have You Seen the Horizon Lately sostiene: “Non permetteremo che venga distrutto il tessuto di coesistenza che abbiamo costruito”.
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