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L'intervista

I leader occidentali non capiscono la minaccia di Hamas. Intervista alla laburista israeliana Michaeli

Fabiana Magrì

"Il massacro di 1.400 persone in un solo giorno che si è verificato a un’ora dal centro di Tel Aviv dovrebbe aiutare a comprendere che la minaccia è fisica e concreta". Il monito della deputata laburista ai leader occidentali sulle derive antisemite in Europa: "È tempo di svegliarsi!"

Nel momento in cui è stata chiara la portata del massacro del sabato nero di Israele, quando le conseguenze dell’attacco senza precedenti di Hamas hanno iniziato a delinearsi, la leader laburista Merav Michaeli si è rivolta ai membri dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici. Li ha informati sulla situazione e sulla posizione dello stato ebraico, sollecitando i colleghi del Parlamento europeo a esercitare tutte le pressioni possibili per la liberazione degli ostaggi israeliani. “Si accorcerebbero anche i tempi della guerra”, sostiene il capo del partito HaAvoda. Era l’11 ottobre e l’incontro si concluse con applausi di solidarietà per Israele. Tre giorni dopo, il presidente dell’Internazionale socialista rilasciava una dichiarazione di ferma condanna “all’attacco terroristico di Hamas contro Israele e il crudele assassinio degli israeliani”, con la richiesta del rilascio immediato degli ostaggi israeliani a Gaza. Nella stessa lettera, il presidente spagnolo Pedro Sánchez ribadiva il diritto dello stato ebraico di difendersi “nel rispetto del diritto internazionale” e sottolineava con estrema preoccupazione “la tragedia umanitaria a cui stiamo assistendo a Gaza, l’attacco indiscriminato contro civili innocenti, il fatto che migliaia di persone fuggono dalle loro case in cerca di rifugio”. Una solidarietà estesa “ai nostri partiti fratelli in Israele e Palestina” e la richiesta del “riconoscimento dei due stati”, in una coesistenza “in pace e in sicurezza”.

A quasi un mese dall’attacco di Hamas che ha causato la morte di 1.400 israeliani e ha trascinato Israele in guerra, l’appoggio allo stato ebraico si fa sempre più fluido. Pesano i rifugiati palestinesi nella zona meridionale della Striscia, gli oltre 9 mila morti dichiarati dal ministero della Sanità di Hamas, i combattimenti in corso tra i miliziani palestinesi e le forze di terra di Tsahal, arrivate in profondità dentro la Striscia e tutto intorno a Gaza City. Degli oltre 240 ostaggi israeliani ancora prigionieri non si preoccupano le piazze europee e in giro per il mondo, dove migliaia di persone si riversano piuttosto a manifestare il sostegno a Gaza e l’opposizione a Israele, con l’inquietante moltiplicazione degli episodi di antisemitismo. Una sfida da cui Michaeli, che a colloquio con il Foglio a Tel Aviv sfoggia tutta la sua determinazione, non si tira indietro. “Sto dedicando molti sforzi alla mobilitazione e al mantenimento del sostegno internazionale a Israele, che è una condizione necessaria per la nostra campagna, del tutto legittima, volta a ripristinare la sicurezza dei cittadini israeliani”. Eppure questo concetto della legittimità va conquistato e difeso perché, dice l’ex ministra dei Trasporti, “troppe parti della sinistra globale sono molto confuse sui propri valori. Difendono e lottano per chi opprime nei modi più violenti donne, bambini, la comunità gay e più semplicemente chiunque non sia allineato con il regime. Realizzare che questo terribile macello di 1.400 persone in un solo giorno si è verificato a un’ora dal centro di Tel Aviv dovrebbe aiutare a comprendere che la minaccia è fisica e concreta. E spiega perché parlare di un cessate il fuoco prima di aver eradicato Hamas dalla Striscia sia impossibile”. Michaeli però ritiene che “a giudicare da come parlano e dalle azioni che stanno intraprendendo, alcuni leader nei paesi occidentali iniziano a rendersi conto che la minaccia da parte di ideologie violente ed estremiste potrebbe essere peggiore di quanto si erano immaginati. Il feroce attacco di Hamas si inserisce in una serie di dinamiche che da anni osserviamo in Europa. Processi con cui anche l’Italia sta facendo i conti. E di cui l’antisemitismo è solo uno dei fattori”. Però il suo messaggio resta: “È tempo di svegliarsi!”.


Riguardo al “post Hamas” nella Striscia, i laburisti restano fedeli all’ideologia dei fondatori della patria e del partito. “Oggi l’unica voce chiara in Parlamento a favore di una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese, da raggiungere con quelli che riconoscono Israele e che concordano che l’unica soluzione sia una coesistenza pacifica nell’interesse di tutti, è la nostra. Anche adesso che è effettivamente troppo presto per parlarne. Sfortunatamente –  dice la leader della sinistra socialdemocratica e sionista dal 2021 –  troppi anni di governi di destra ci hanno allontanato deliberatamente da questo percorso”. Ma, sostiene, si sta diffondendo l’idea che “una soluzione nemmeno troppo lontana nel tempo sarà riportare l’Autorità nazionale palestinese a Gaza. Certo chi pensa che questo possa succedere senza qualche tipo di soluzione politica globale prende in giro se stesso. Anche questa si preannuncia come una lotta lunga e complicata”. Dentro casa, i laburisti stanno conducendo una campagna agguerrita per la rimozione immediata del primo ministro Benjamin Netanyahu dal suo incarico, finanche “nei corridoi della Knesset”. Ma le uniche minacce sollevate dai membri della coalizione di governo, fino a questo momento, sono stati deboli sassolini scagliati da anonime mani, subito nascoste. Osare non è facile. Meno che meno in una fase delicata come questa, in tempo di guerra e di crisi. E in un ecosistema che si direbbe ancora ben stretto attorno alla figura di “Bibi” e alla paura di sfidarlo. “Le rivoluzioni sono impensabili fino al momento in cui diventano inevitabili. Possono realizzarsi in un battito di ciglia”, afferma ottimista la leader attivista e femminista. “A volte le vedi montare. Altre volte viaggiano sotto i radar finché esplodono all’improvviso. Il fatto che non sia ancora successo non significa che non possa concretizzarsi domani o tra una settimana”. Ma la politica non solo è complessa. È anche questione di interessi. “Certo – dice lei – ma bisogna essere all’altezza del momento. A cosa serve coltivare interessi personali politici se non hai più uno stato dove poterli esercitare”.

Al momento però, prevale ancora l’idea che Netanyahu dovrà, sì, rispondere delle sue responsabilità, ma solo a guerra finita. “Netanyahu è pericoloso per Israele e non può guidarci durante la guerra. È nel miglior interesse degli israeliani avere adesso un leader che goda della loro piena fiducia”, sostiene invece Michaeli. E aggiunge che “esistono strumenti legislativi per sostituirlo, anche senza tornare alle urne”. C’è tuttavia anche un’altra minaccia. Quella delle frange radicali della destra israeliana che cercano di approfittare della situazione, facendo leva sul senso di insicurezza e sulla perdita di fiducia nelle persone, per giustificare e diffondere una folle ideologia messianica e di suprematismo ebraico. “Sono impegnata contro di loro da sempre e continuerò a esserlo. Di certo non smetterò di lottare solo perché il mio avversario è più forte. Anzi, proprio per questo – conclude – invito chiunque sia interessato a combattere per una buona causa a mettersi in contatto con noi. Siamo aperti verso chiunque voglia sostenere lo stato democratico di Israele”. 

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