Kevin McCarthy (a sinistra) e Tom Emmer (foto LaPresse) 

I trumpiani tengono sotto scacco il Congresso e i nove candidati speaker

Giulio Silvano

Il mancato appoggio di Trump a Tom Emmer, che sarebbe a oggi il favorito nella corsa per sostituire McCarthy come speaker della Camera, è un segnale che la guerra civile interna al partito non si sta risolvendo

Per sbloccare la situazione alla Camera dei rappresentanti, che da venti giorni è in stallo, l’opzione più ragionevole sarebbe stata quella di dare allo speaker pro tempore Patrick McHenry ulteriori poteri. Erano d’accordo i dem e una parte moderata del GoP. Sarebbe stato il modo più rapido per far funzionare l’organo legislativo, evitare uno shutdown, approvare gli aiuti (per Israele e per l’Ucraina), non lasciare le ambasciate sguarnite, dato che le nomine sono bloccate. Senza lo speaker la Camera diventa inutile, non possono esser firmate leggi. Ma la bipartisanship è una chimera, perché una parte del GoP non accetta i compromessi con il Partito democratico. Il deputato della destra dura Matt Gaetz ha destituito Kevin McCarthy, perché aveva osato trovare una convergenza coi dem. La sostituzione di McCarthy, lo speaker durato meno nella storia da quando Michael Kerr morì di tubercolosi nel 1876, non è stata automatica. Prima un voto di partito a porte chiuse ha selezionato il deputato Steve Scalise, appartenente all’ala destra del partito, ma alcuni ancora più a destra non l’hanno appoggiato e così è saltato. Quello che era arrivato secondo, Jim Jordan, trumpiano di ferro, volto Maga della commissione giustizia che guida l’investigazione per l’impeachment di Biden, è diventato il nome di punta. Ma anche lui non ha raggiunto i 217 voti necessari nelle tre votazioni. Se nel caso di Scalise l’opposizione veniva dai supporter irremovibili di Jordan, nel caso di Jordan c’è stato un piccolo fronte di moderati eletti in distretti bideniani che ha paura di perdere il proprio seggio nel 2024. Il Senato a guida dem è impaziente. Il senatore Chuck Schumer, che è andato in Israele, ha detto che non si può aspettare, che è necessario far passare un pacchetto di aiuti. La guerra non può aspettare i capricci dell’AltRight, perché gli equilibri geopolitici cambiano anche se i deputati Maga non accettano di dare il martelletto a qualcuno che non sia nella loro gang. I numeri sono molto risicati.

   
Dopo il fallimento delle candidature di Jordan e Scalise questa volta c’è una selezione più ampia di aspiranti speaker. Il nome di punta è quello del deputato del Minnesota Tom Emmer. E’ arrivato in Congresso nel 2014 grazie ai voti del Tea Party, e nel 2021 è stato tra quei repubblicani che hanno votato contro all’istituzione di una commissione per investigare l’attacco del 6 gennaio. Venne criticato per aver postato su Twitter un video in cui sparava con un fucile automatico e la scritta #firepelosi (quando all’alba delle midterm si esaltavano con l’idea di mandare a casa l’allora speaker dem Nancy Pelosi). Emmer ha ricevuto il supporto di McCarthy, ma è mancato quello di Trump, come sta mancando quello di molti della hard right, perché Emmer dopo le elezioni presidenziali ha certificato il voto per Biden, non consentendo il tentato coup. Tra i fedeli a Trump che hanno messo il proprio nome cappello c’è il quarantaquattrenne Byron Donalds, afroamericano, che invece aveva votato contro la certificazione dei voti di Biden, membro del Freedom caucus. Un altro trumpiano che si è lanciato nella corsa è Mike Johnson, avvocato che aveva difeso l’ex presidente durante i due tentativi di impeachment. Poi ci sono Kevin Hern, già proprietario di vari McDonalds in Oklahoma, il deputato della Georgia Austin Scott, che fino ad ora aveva supportato Jordan, e il texano Pete Sessions, conservatore vecchio stile, poi il settantaseienne Jack Bergman e Gary Palmer, dell’Alabama. 

  
Il mancato appoggio di Trump a Emmer, che sarebbe a oggi il favorito, è un segnale che il caos, la guerra civile interna al partito, non si sta risolvendo. Uno dei motivi del mancato appoggio è che Emmer non ha dato la sua preferenza per Trump nelle primarie. Steve Bannon, guru della destra alternativa, ha bollato Emmer come uno “che odia Trump”. Si vedono all’opera i meccanismi del trumpismo: i deputati che non hanno votato Jordan hanno ricevuto minacce telefoniche e sui social dalla base trumpiana che sta garantendo il controllo dell’ex Potus sul partito. Il GoP è suo. 

   
Dalla Florida, o dalle aule di tribunale, pur senza cariche pubbliche, continua a controllare il partito, perché nelle primarie è ancora in grande vantaggio. Un sintomo di questo si vede nei candidati a speaker: sette su nove – Donalds, Hern, Session, Johnson, Meuser, Bergman, Palmer – hanno votato contro la certificazione dei voti a Biden, e sono quindi parte del clima antidemocratico che ha portato all’attacco al Campidoglio. Ma lo stallo a Washington non pesa solo sul partito, o sull’America, ma sul mondo intero.

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