Non tutto ciò che si affaccia a est va confuso con Orbán

Micol Flammini

L’Europa centro-orientale non è un’enorme Ungheria e anzi sarebbe il momento di ridimensionare il ruolo del premier magiaro. Perché i voti in Slovacchia e Polonia dimostrano che non esiste un paradigma orbaniano

Il premier ungherese Viktor Orbán è stato bravo a tramutare la sua figura di leader di un paese che conta meno di dieci milioni di abitanti, meno della Lombardia, nel paradigma di un modo di pensare  e di far pericolare l’Ue.  Orbán si è piazzato davanti allo  specchio deformante della politica internazionale che riflette la sua immagine restituendola composta da misure tanto sproporzionate, da oscurare tutto ciò che avviene nel resto dell’Europa centro-orientale,  da renderla, agli occhi di alcuni, una gigantesca Ungheria. 

Quello che avviene a est è variegato proprio come quello che avviene a ovest e le elezioni dello scorso fine settimana in Slovacchia e quelle del 15 ottobre in Polonia lo dimostrano. 

In Slovacchia ha vinto con il 23 per cento  l’ex premier Robert Fico, leader di un partito che si chiama Smer, il cui nome completo è Smer – sociálna demokracia, Direzione – socialdemocrazia. Ha ottenuto una buona percentuale, ma questo potrebbe non essere sufficiente per formare una coalizione. Per governare, dovrebbe chiedere a qualcuno di entrare in coalizione, questo qualcuno potrebbe essere l’ex premier Peter Pellegrini, leader di Hlas, che nacque proprio da una scissione con Smer. Vecchie conoscenze, che hanno trovato più punti di disaccordo che di unità. Pellegrini potrebbe voltarsi altrove, dare il suo sostegno al secondo arrivato, il Ps che sta per Slovacchia progressista, una forza politica liberale piuttosto nuova che è cresciuta rapidamente. Se Fico, che di Orbán ha le simpatie internazionali ma non il carisma, riuscisse a creare una coalizione, la situazione in Parlamento sarebbe molto più varia rispetto allo stallo ungherese in cui Fidesz, il partito del premier, parla, Fidesz legifera e Fidesz vota. La capacità di Fico di rallentare le decisioni europee sarebbe limitata, c’è il diritto di veto, ma c’è sempre la forte dipendenza di Bratislava quanto di Budapest nei confronti di Bruxelles che alla fine riesce sempre a limitare i danni. 

Se la Slovacchia non è l’Ungheria, tanto meno lo è la Polonia, dove domenica scorsa sono scese in strada più di un milione di persone, che hanno molto a cuore il loro paese. La manifestazione a Varsavia, chiamata la Marcia di un milione di cuori, è stata organizzata dal volto principale dell’opposizione polacca, anche lui un ex premier, Donald Tusk. Nelle stesse ore, vicino a Katowice, si teneva invece un evento del PiS, il partito che governa la Polonia dal 2015, che rispetto alla marcia del centro della capitale era una riunione buia e sottotono. I sondaggi sono chiari, il PiS si riconfermerà primo partito, ma avrà bisogno di formare una coalizione per governare e qualora ci riuscisse dovrà vedersela con un’opposizione crescente che finora è stata in grado di avere peso in Parlamento bloccando  alcune leggi controverse. In Polonia non c’è il dominio di un partito unico, l’opposizione non sempre unita – difficile che la coalizione conservatrice di Tusk possa andare d’accordo con la sinistra – è però vivace  e se il PiS si assicura ancora un buon sostegno elettorale grazie ai risultati economici ottenuti in un paese in crescita, la società polacca non si tira indietro e protesta  a ogni legge  del governo che ritiene sbagliata, come avviene in democrazia. Altri cinque anni di PiS, che non sono scontati, non possono che fare male alla Polonia, ma le diversità rispetto all’Ungheria rimangono molte, anche perché il peso di Varsavia a livello internazionale e con un’Ue sempre più attenta al suo confine orientale è decisivo. 

Non esiste alcun paradigma Orbán per l’Europa centro-orientale, non esiste un contagio illiberale di ispirazione ungherese che sia una minaccia esistenziale per Bruxelles o per Kyiv, a cui Fico vuole negare la sua solidarietà o con cui il PiS litiga per il grano. Anzi, forse sarebbe il momento di ridare a Orbán la sua dimensione: provocatore, oratore, leader carismatico, ma, baruffe e veti a parte, poco influente per la direzione che sta prendendo l’Europa.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.