nordafrica

L'impatto enorme sul Mediterraneo e su di noi della catastrofe libica

Giulia Pompili

Un muro d’acqua ha distrutto tutto quello che gli si presentava davanti. Un paese diviso tra due governi e il caos attorno. Decine di migliaia i dispersi in un'area martoriata come Derna, dove meno di dieci anni fa lo Stato islamico faceva le sue esecuzioni pubbliche nello stadio cittadino. Il famoso e fumoso Piano Mattei per l'Africa di Meloni ha bisogno di concretezza

La parola “catastrofe” non è più nemmeno efficace per descrivere la situazione a Derna, in Libia. Lo ripete Hamad al Shalwi, membro dell’Unità di crisi, che ripete ai giornali internazionali: la situazione supera ogni immaginazione. Migliaia di persone, dopo oltre 56 ore dal passaggio del ciclone Daniel, sono ancora sotto alle macerie e al fango e all’acqua. E oltre alla devastazione, più le ore passano, più quei corpi diventano un problema per i sopravvissuti: si temono epidemie, contaminazioni, e poi manca cibo, acqua potabile, carburante, medicinali. Quella di Derna è l’area più colpita dalle inondazioni: due dighe sono saltate creando una specie di maremoto – secondo le prime indagini del governo dell’est, i contratti di manutenzione di quelle due dighe non erano ancora stati firmati, nonostante lo stanziamento dei fondi. Due giornalisti dell’Associated Press che sono riusciti ad arrivare sui luoghi del disastro hanno raccontato che sebbene molte città libiche siano state interessate dal disastro del ciclone, Derna è stata quella più colpita anche perché non esisteva nemmeno un piano per l’evacuazione: “Molti residenti hanno detto di non aver capito di essere in pericolo fino a quando non hanno sentito il suono della rottura delle dighe”. Da quel momento in poi, un muro d’acqua ha distrutto tutto quello che gli si presentava davanti. Secondo la Croce rossa uno dei problemi di questa fase di recupero dei superstiti è che l’acqua potrebbe aver portato in città e nascosto sotto al fango anche ordigni bellici.  E’  molto difficile in questo momento in Libia fare anche solo una stima dei morti: il ministro dell’Interno del governo della Libia orientale, Essam Abu Zeriba, ha detto che i morti accertati sono più di 2.700 e altrettanti i dispersi. Ma ieri Abdulmenam al Ghaithi, sindaco di Derna – una città dalla storia tormentata, ex colonia italiana e poi, neanche dieci anni fa, occupata dai fondamentalisti dello Stato islamico, dove si stima che abitassero circa diecimila persone – ha detto ad al Arabiya che solo lì il numero di morti potrebbe essere ventimila. 

 


La catastrofe libica arriva a pochi giorni dal terremoto che ha colpito il Marocco, che ha ucciso almeno 2.500 persone. Rabat però non ha ancora dato il via libera a diversi aiuti offerti dalla comunità internazionale. Che si sta mobilitando per la Libia: i primi aiuti sono arrivati dall’Egitto, il paese più vicino a Derna, e dalla Tunisia. Poi dalla Turchia. Sono arrivati anche gli quelli dall’Italia: la Farnesina ha annunciato che sono atterrati due C-130 J italiani con materiali di supporto e squadre specializzate nell’assistenza acquatica. 

 


Ma l’emergenza non è soltanto quella sul territorio, tra le vittime, riguarda anche la politica e la diplomazia. La situazione in Libia rischia di peggiorare e sprofondare in un caos perfino maggiore di quello attuale, divisa tra due governi. La zona più colpita dalle inondazioni è quella della Libia orientale, dove il governo è retto dal primo ministro Osama Hamad ma il potere è nelle mani del generale Khalifa Haftar, sostenuto dall’Egitto di al Sisi e dalla Russia di Putin. Il primo ministro Abdulhamid Dabaiba, che guida il governo di unità nazionale di Tripoli riconosciuto dall’Onu, è stato autorizzato a inviare squadre di soccorso nella Libia orientale, ma secondo diversi osservatori l’emergenza diventerà l’ennesima occasione per tentare di riprendere il controllo del paese. La solidarietà, infatti, è anche una gara d’influenza politica da parte degli attori della regione che vorrebbero essere più presenti nel paese. La catastrofe libica, unita a quella del Marocco, nei prossimi mesi potrebbe aggravare la crisi migratoria, con le relative conseguenze politiche sull’Unione europea – che l’altro ieri ha stanziato i primi 500 mila euro in aiuti umanitari e ha attivato il meccanismo europeo di Protezione civile. E’ soprattutto il governo italiano a guardare con attenzione alle conseguenze della catastrofe: Giorgia Meloni, che sta lavorando per intestarsi, almeno a livello internazionale, una leadership nel Mediterraneo in vista della presidenza del G7 del prossimo anno, rischia di trovarsi nel mezzo di una situazione ben più complicata del previsto. L’altro ieri la presidente del Consiglio ha telefonato sia a Dabaiba sia a Haftar. Ieri il ministro degli Esteri Tajani ha detto che l’italiano “Nicola Orlando, dopo un iniziale diniego, ha ottenuto l’autorizzazione da parte del governo libico e quindi sarà il futuro rappresentante dell’Ue presso il governo di Tripoli”. Ma il famoso e fumoso Piano Mattei per l’Africa, che funziona molto nei discorsi pubblici, ha urgente bisogno di concretezza. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.